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Inizialmente pensai che fossero solo naturali coincidenze, ma dopo una decina di giorni, mi accorsi che accadevano troppo spesso.
Quando la incontrai per la prima volta ero nel bagno turco, lei entrò qualche secondo dopo di me ed esclamò: «Parbleu! Non si vede nulla. Il vapore è così intenso che un giorno o l’altro, mi siederò in braccio a qualcuno». Non si era accorta che se non mi fossi spostato per tempo, l’avrebbe quasi fatto.
Dopo di allora abbiamo cominciato a incontrarci più spesso, non solo nel centro benessere, ma anche nella sala attrezzi e infine nel ristorante del centro. Dopo gli isolati sorrisi di prammatica, quella del ristorante fu l’occasione per rompere il ghiaccio.
Come mi accade spesso, lei cominciò a raccontarmi di sé. Dicono che ispiro fiducia, che so ascoltare, che non sono pretenzioso nella conversazione. Insomma, se avessi scoperto prima queste mie qualità, avrei potuto mettere una seria ipoteca su un futuro da analista. Non è stato così. Comunque, ascoltare mi piace davvero.
Nel giro di un’altra settimana sapevo che: era nata in Francia, trapiantata in Campania con i genitori re-immigrati, laureata in lettere moderne, adorava l’opera, la musica classica e il cinema. Aveva trentacinque anni e, non so chi, le aveva detto che ero un accanito lettore.
Leggere era una cosa che prima facevo abitualmente durante il pranzo, poi sempre più difficile, perché lei era diventata una presenza ricorrente. Ci incontravamo al bar del centro intorno alle undici per un caffè, ci lasciavamo per cambiarci per la sala o la spa, e ci ritrovavamo a pranzo. Sei giorni su sette, io, quattro giorni, lei.
Anche a lei piaceva leggere e si era lamentata che le persone che frequentava, la considerassero una cosa alquanto inutile. Per questa ragione, quando le avevano detto che durante il pranzo avevo sempre il lettore digitale davanti, aveva pensato che fossimo affini. Quando scoprì che avevo anche altre delle sue passioni, mi chiese, senza mezzi termini, di condividerle insieme.
Man mano che passavano i giorni mi accorgevo degli occhi astiosi di alcuni altri soci del club e di parte dello staff, ma non m’importava, non ci vedevo nulla di male in quell’amicizia. Certo una gran bella donna, come lei, faceva la differenza, ma non ero stato io a prendere l’iniziativa.
Una sera, dopo essere andati al San Carlo per ascoltare un concerto e mangiata una pizza, le dissi che possedevo, lasciata da mio nonno a mio padre e poi a me, una copia fantasma dell’Ulisse di Joyce, nella prima stesura di Sylvia Beach. Lei non volle crederci e chiese che gliela mostrassi, subito. Com’è che successe che qualche ora dopo ci ritrovammo con lei che declamava a piedi scalzi sul mio letto il testo in francese, non saprei dirlo, ma di certo il seguito della notte era già segnato.
Pur mantenendo un irreprensibile comportamento durante gli incontri al centro, sempre più spesso ci ritrovavamo a condividere le nostre passioni, fuori e sotto le lenzuola del letto di casa mia. Non avevo di che lamentarmi, condividere il piacere per la cultura, a tutto tondo, con lei, ci rendeva simbiotici, quasi delle anime gemelle.
Fino al giorno in cui è misteriosamente scomparsa. Come se, dopo l’ultima notte passata insieme, si fosse dissolta alla luce dei primi raggi di sole. Ricordo solo le ultime parole che mi disse prima di andare via: «Può darsi che anch’io come Leopold Bloom, debba partire verso Levante, alla ricerca della resurrezione del mio corpo. Sono nata da una famiglia disgraziata e segnata da un destino infame».
Ero troppo stanco per risponderle e troppo stupido per capire.

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