Fare un trasloco è di solito l’occasione per mettere ordine nella vita.
Generalmente si compie in due fasi molto distinte l’una dall’altra. La prima avviene durante il raduno delle innumerevoli cose che giacciono dimenticate nei cassetti, mobili, armadi e scatoloni. La seconda durante il loro riposizionamento nella nuova abitazione.
Al termine di questa complessa opera di rivalutazione del valore e dell’importanza che l’oggetto conserva o rappresenta, scegliamo cosa tenere o cosa buttare. Filosoficamente si potrebbe definire come un’operazione di cancellazione o rimozione del nostro passato più o meno remoto, per fare spazio ad un futuro da divenire; nella pratica ci si libera del superfluo materiale e immateriale.
Invece, quando accade perché la vita che ti ha generato finisce, girare nella casa dove sei cresciuto o nato, senza le presenze che l’hanno vissuta insieme con te, esercita nell’inconscio la consapevolezza che il tempo che volge al termine ci riguarda. Allora quest’occasione di riordino assume tutt’altro significato, perché concerne la memoria delle proprie radici.
Fu proprio in questa triste circostanza che feci un’inaspettata scoperta.
Ricevetti la telefonata della signora Antonia di mattina presto, intorno alle otto. Non appena udii il tono della voce, ebbi un sussulto, poi confermato dalle sue parole: mia madre era morta. Afferrai il braccio di mia moglie, lo strinsi forte e, mentre la signora Antonia singhiozzava in un pianto sommesso, comunicai anche a lei la notizia. Le chiesi se avesse chiamato un medico e dall’altro capo del telefono mi rispose Luigi, il mio amico d’infanzia; in seguito divenuto medico di mia madre. Mi confermò che doveva essere morta durante il sonno perché i tratti del viso erano sereni, segno che non doveva essersene neppure accorta. Aggiunse che in attesa del mio arrivo, avrebbe provveduto a contattare le onoranze funebri per predisporre la camera ardente. Lo ringraziai e andai di corsa in stazione; mia moglie e mio figlio mi avrebbero raggiunto in seguito.
Durante il viaggio in treno lo contattai nuovamente. Nella fretta di partire avevo dimenticato di comunicargli le disposizioni che mia madre mi aveva dato sul suo funerale. Anche se credente, mia madre non voleva i funerali in chiesa e neppure la benedizione della salma. Diceva che per trovarsi davanti a Dio, non aveva bisogno d’intermediari. Inoltre, voleva essere cremata e perché fosse felice, dovevo farlo anche con i resti di mio padre, unendo le loro ceneri e disperdendole nel mare dei bagni della Regina Giovanna a Sorrento; il luogo dove si erano incontrati per la prima volta. Allora non le promisi nulla, la dispersione non era ancora ammessa legalmente, ma ripensandoci in quel frangente, decisi che l’avrei accontentata.
Luigi disse di non preoccuparmi, anche lui era stato informato delle volontà di mia madre e avrebbe agito di conseguenza. La cosa non mi stupì, conoscendo l’affetto che lo univa a mia madre, fin da quando eravamo bambini e amici inseparabili.
Durante la telefonata sentii, in sottofondo, la voce della signora Antonia, che raccomandava a Luigi di non farmi preoccupare, perché con Ilaria c’era lei. Sorrisi a quelle parole, ricordando che quando proposi a mia madre di assumere, quella che comunemente è chiamata badante, lei s’inalberò rispondendomi che era perfettamente in grado di badare a sé stessa e che non era come quelle vecchie decrepite, incapaci o allettate. Dopo le mie lunghissime insistenze, giungemmo alla compromissoria conclusione che aveva bisogno di una donna di compagnia, piuttosto che di una badante.
Antonia che in realtà si chiamava Antonida ed era Ucraina, le fu subito simpatica e instaurarono in breve tempo un ottimo rapporto. Antonia aveva quarantadue anni, la metà di mia madre e con la sua presenza, mia madre, riassaporò i voluttuari piaceri di gioventù. Andavano molto spesso al cinema, avevano fatto l’abbonamento a teatro, girovagavano di continuo per la città per visitare chiese e monumenti, sul comodino accanto al letto ricomparvero dei libri.
Quando alcuni mesi prima ero stata a trovarla, mi disse che Antonia pensava spesso di ricongiungersi con la sua famiglia e aveva pensato che quando fosse morta, e noi non volessimo disfarci subito della casa, avrebbe avuto piacere se l’avessimo fittata a lei. Anche questo era un desiderio che, nel caso Antonia l’avesse confermato, avrei senz’altro esaudito.
Intorno alle sei di sera arrivai alla stazione centrale e presi un taxi. Quando finalmente raggiunsi il portone di casa, l’autista si scusò e, con ripetuti cenni del capo, mi diede le condoglianze. Se avesse saputo del lutto, disse, si sarebbe impegnato maggiormente a districarsi dal traffico e arrivare prima. Lo guardai per nulla meravigliato di quel commento, fatto a seguito della vista del portone del palazzo chiuso a metà e con affisso un manifesto di lutto; com’è consuetudine in quelle circostanze. Lo ringraziai e pensai che il popolo napoletano non smentirà mai l’indole di genuina solidarietà nel dolore. D’altronde quella città, tanto vituperata, era invece apprezzata in tutto il mondo proprio per essere un grande e immenso villaggio globale, dove dolore, passione e gioie sono tutt’uno con la vita quotidiana e le sue bellezze.
Mi fermai qualche istante davanti al manifesto che comunicava che la Signora Ilaria Antonucci, vedova Santaniello si era spenta serenamente. Si dispensava dai fiori e si annunciava che la salma sarebbe stata ridotta in cenere per volontà della defunta. Fui contento che Luigi non avesse adoperato il termine “cremazione”, reminiscenza di un infausto passato.
Nei giorni successivi le incombenze legali e organizzative alla realizzazione del desiderio di mia madre, m’impegnarono molto. Intanto ero stato raggiunto da mio figlio e da mia moglie e attendavamo solo l’arrivo di mia sorella Clara dall’Australia, dove ormai risiedeva stabilmente, per dare seguito alla dispersione delle ceneri dei nostri genitori.
Quando tutto fu finito, guardando con un’attenzione nuova i quadri, i mobili e gli oggetti di casa, mi resi conto che essi non rappresentavano più niente per me. Finora erano stati una parte collaterale del mio cordone ombelicale. Ora che questo si era indissolubilmente reciso, erano solo cose; che potevano appartenere a chiunque. Un pensiero che aveva una certa analogia con quello di un mio collega, piuttosto sfortunato in amore, nella sua personalissima elaborazione del disincanto per l’ex-amata di turno: procedeva sistematicamente a un’operazione di rimozione globale, sbarazzandosi di tutte le cose riferibili alla loro unione, finanche dei mobili. Quando mi confidò la cosa, pensai fosse solo una bizzarra maniera per cercare di dimenticare, ma ripensandoci ora, propenderei nell’affermare che la sua pulizia esteriore aveva, come unico scopo, di tenere solo per sé i ricordi dell’anima; gli unici che non avrebbe mai potuto cancellare.
Mi sedetti su una poltrona del salotto e rimuginai sul fatto che entro pochi mesi anche la casa che mi aveva visto crescere, sarebbe rinata a nuova vita. Antonia aveva deciso di non restare e appena venduta la casa, sarebbe tornata in Ucraina. Nel testamento che mia madre aveva lasciato, era indicata la volontà che le fosse destinata la sua quota disponibile.
Quella mattina mia moglie e mio figlio erano ripartiti per Trieste. Gli impegni di lavoro di mia moglie e di studio universitario per mio figlio, non gli permettevano di restare oltre. Io che potevo ancora avere alcune ferie, pensai di approfittarne per trascorrere qualche altro giorno con mia sorella, che non vedevo da molti anni.
Immaginai che li avremmo sfruttati per ritrovare insieme qualche vecchia amicizia e rivedere alcuni luoghi della nostra adolescenza. Invece, le voci affannate di Clara e Antonia stavano per mutare ogni mio proposito.
Entrarono nel salotto trascinando con fatica un tappeto dov’era appoggiato un grande baule. Lo riconobbi subito, era quello sistemato nello studio di nostro padre e sapevo che conservava tutti i ricordi della nostra famiglia.
Antonia lo aprì, prese una scatola e me la consegnò, dicendo che era per me. Prima che ne guardassi il contenuto, mi anticipò che c’erano dei documenti e un diario scritto da mio nonno; ritrovato da mio padre. La guardai sconcertato, l’intimità che aveva stretto con mia madre era giunta al punto da farla diventare la naturale messaggera di una sua comunicazione per me.
Clara sbuffò senza fare commenti. Fin da piccola si era sempre sentita seconda, non perché lo fosse anagraficamente, ma perché lamentava che le sue esigenze, le sue aspirazioni, non erano mai state considerate importanti, quanto le mie. Non era vero, nascondeva la sua fragilità emotiva dietro un’inesistente sottovalutazione nei suoi riguardi, per rendersi incolpevole della cronica insufficienza del profitto scolastico o degli improvvisi e strampalati colpi di testa che mettevano continuamente in apprensione i nostri genitori.
La scatola era di latta, di quelle riccamente decorate che contenevano la costosa e fine pasticceria da dessert, regalo tanto in uso negli anni della mia gioventù. All’interno c’era la foto di una grande pietra quadrata su cui era inciso un numero: 308. La voltai e lessi l’annotazione scritta a penna: cimitero delle 366 fosse, via Fontanelle al Trivio, Napoli.
Avevo letto di quest’antico cimitero in disuso, in un libro sulle mille cose da fare e da vedere a Napoli, che avevo trovato su una bancarella a Trieste. Lo acquistai per nostalgia ma vi scoprii luoghi e storie a me totalmente sconosciuti. Avevo girato in lungo e largo il mondo ma, come sempre accade, pochissimo la mia città.
Clara, che intanto aveva cominciato a estrarre dal baule altri oggetti, lanciò un’occhiata alla foto e mi chiese cosa fosse. Prima che potessi risponderle, Antonia intervenne di nuovo, dicendo che c’era stata insieme alla signora, senza poterci entrare perché non era più aperto al pubblico. Le passai la foto, lesse l’annotazione e sullo smartphone avviò la ricerca su Wikipedia, delle informazioni sul luogo. Dalla scatola presi un altro foglio che nella parte superiore aveva la foto di un testo, forse un documento, e nella parte inferiore quella che sembrava essere la sua riscrittura leggibile. Passai anche questo a Clara, ed estrassi un quaderno con una copertina rigida verde con un piccolo risvolto a mo’ di chiusura.
Aprii il risvolto e la copertina, e sulla prima pagina trovai scritto: Diario delle ricerche su Filomeno de Prosperis (4 luglio 1843 – 4 novembre 1867) condotta da Filomeno de Prosperis nell’anno 1960.
Dalla data compresi che non poteva che trattarsi di mio nonno. Nel calcolare l’età del Filomeno del 1843, trasalii e i pensieri presero a scorrere liberi e confusi.
Sulla pagina successiva vi lessi il motivo che aveva indotto mio nonno a intraprendere quelle ricerche.
1° settembre 1960 - Ho deciso di scrivere questo diario perché un evento accaduto lo scorso anno, mi ha riportato alla memoria alcuni fatti riguardanti il mio bisnonno. Li scrivo per tenere traccia dei progressi fatti e tramandarle ai miei discendenti. Lo faccio perché credo che ogni famiglia non debba mai dimenticare il proprio ceppo d’origine.
L’evento si riferisce alla mia andata a Casamarciano, nel nolano, per firmare, unitamente ad altri eredi, l’atto di vendita del terreno della vecchia masseria dei miei nonni. Prima di recarmi dal notaio, decisi di fare un sopralluogo nella grande casa di loro proprietà, ormai fatiscente. Ricordavo di esserci stato solo una volta, quand’ero ragazzo, per i funerali di mia nonna.
Non avevo mai avuto altre occasioni per incontrare la nonna perché, da quando si era risposata, mio padre si era trasferito a Napoli e aveva interrotto ogni rapporto con lei. Non conoscevo le ragioni di quel comportamento e né gliele chiesi mai, sapevo solo che l’unica cosa che portò con sé, fu una valigia che conteneva la camicia rossa garibaldina del padre e alcune carte.
Quando rividi la casa, non aveva più il fascino della grande tenuta che tanto m’impressionò, ma ugualmente mi attraeva. Sapevo che in quella casa si erano avvicendate intere generazioni; coloni prima, mezzadri poi e infine padroni. Lì aveva vissuto anche mio nonno Filomeno, di cui porto il nome, sicuramente l’ultima reiterazione per via discendente.
Di mio nonno conosco solo alcune cose. Me le raccontò mio padre quando a scuola scoprii che, nonostante tutti mi chiamassero Giulio, il mio primo nome di battesimo è Filomeno; Giulio, il secondo nome, era di mio nonno materno. Seppi che a mio nonno era stato imposto quel nome, diffuso solo al femminile, perché era nato poche ore dopo la morte di sua nonna Filomena. Il parroco del paese, aveva garantito che tra i Santi si annoverava anche un Filomeno. Pertanto, omaggiarla così sarebbe stato un doveroso gesto di rispetto.
Mio padre mi raccontò che mio nonno era morto di tisi quando lui aveva solo quattro anni, anche se le voci che circolarono per molti anni, lo davano chi per pazzo, chi per ucciso.
Mi spiegò che quelli erano gli anni della paura e del sospetto. L’unificazione del paese sotto i Savoia, impegnò l’esercito italiano in tutto l’ex regno delle due Sicilie, nella caccia ai fedeli all’ex Re Borbone e ai briganti che imperversano nelle campagne. Non fu sicuramente una pulizia etnica, ma certamente un’epurazione manu militari di ogni opposizione al nuovo regno.
Gli avevano detto che mio nonno, ancora ragazzo, aveva combattuto nella battaglia del fiume Volturno insieme all’esercito Garibaldino. Quando finì la guerra, tornò sfiduciato dal fronte; considerava la resa di Garibaldi ai Savoia un tradimento degli ideali Mazziniani, che anche lui aveva abbracciato durante la guerra di liberazione.
Ben presto dimenticò la politica e prese a commerciare i prodotti delle sue terre, viaggiando spesso. Nel febbraio del 1868 con una lettera, inviata dall’ospedale Incurabili di Napoli, seppero che il 4 novembre 1867, Filomeno de Prosperis era morto di tisi.
Tornato da Casamarciano, ho avvertito forte la curiosità di saperne di più su mio nonno e sono andato alla ricerca della valigia che ricordavo essere ancora conservata da qualche parte.
Quando l’ho ritrovata, ho cominciato a rovistare tra quelle carte ingiallite, scritte con un linguaggio arcaico di difficile comprensione. Dopo un mese d’inutili tentativi di traduzione, ho deciso di rivolgermi a un grafologo.
26 ottobre 1960 - Il grafologo è stato molto bravo. Non solo ha tradotto le carte, ma le ha anche distinte e inventariate per argomenti, facilitandomi il compito.
Alcune carte sono dei pagherò, altre impegni d’acquisto, altre contratti di vendita e altre di pagamenti per rette ospedaliere agli Incurabili di Napoli. Tutte le operazioni recano il timbro del Banco di Napoli.
Mi sono particolarmente incuriosito di quelle agli Incurabili, perché la più vecchia recava la data del 3 marzo 1866. Ho rapportato quella data con quella della sua morte, e ne ho concluso che mio nonno era stato ricoverato in quell’ospedale per venti mesi.
Il mio medico ha escluso ogni possibilità di una degenza così lunga per la tisi. La tisi, mi ha detto, quando si radicalizza nell’individuo, provoca la morte entro otto, dieci mesi. Forse, ha aggiunto, non era stato ricoverato per tisi, contratta in seguito, per qualche motivo assai plausibile di quei tempi.
Chiara interruppe la mia lettura, ricordandomi che avevamo appuntamento con Luigi che voleva portarci a mangiare una pizza a Spaccanapoli. Sfogliai rapidamente le altre pagine del diario fino ad arrivare all’ultima che recava la data del 4 dicembre 1960. Le diedi una rapida occhiata, riservandomi di rileggere con calma tutto il diario.
Luigi ci aspettava a piazza Miraglia, Antonia nonostante le nostre insistenze non volle seguirci. Passeggiammo lungo tutta Spaccanapoli, l’antico Decumano maggiore, fermandoci a ogni angolo per ravvivare i ricordi di quando, da ragazzi, giocavamo tra i vicoli, o mangiavamo un panino con la ricotta e cicoli o gustavamo i dolci frutti delle campagne limitrofe cittadine. Anche Clara, allora molto piccola, aggiungeva ai nostri ricordi i suoi.
Arrivati quasi di fronte al vecchio tribunale, Luigi fece segno di entrare in una pizzeria e ci fece notare la brochure del menù. Su ogni categoria di cibo c’era, in dialetto, una frase diversa. Leggendole consecutivamente ne veniva fuori un divertente dialogo tra cliente e cibi. Era la prima volta che lo vedevo e commentai, a voce alta, che solo il genio creativo del popolo partenopeo, poteva realizzarlo.
La pizzeria si trovava proprio di fronte all’archivio storico del Banco di Napoli e, nel vederlo, mi tornò in mente il diario. Quando ci sedemmo Luigi si accorse che ero sovrappensiero e mi chiese cosa avessi. Indugiai qualche istante, poi con voce mesta gli raccontai della scatola e del diario.
Ancora una volta, il mio più caro amico d’infanzia mi stupì, confidandomi che non solo sapeva della scatola e del diario, ma aveva anche aiutato mia madre in alcune ricerche. Lo guardai confuso perché ogni volta che tornavo a Napoli per incontrare mia madre, coglievamo l’occasione per stare insieme, e non mi aveva mai detto nulla del diario e neppure delle ricerche.
Tirò un profondo respiro e scusandosi rispose che era stata proprio mia madre a chiedere, a lui e ad Antonia, di non rivelarmi nulla. Ecco, pensai, perché Antonia non era voluta venire, temeva che avessi parlato con Luigi della scatola. Che situazione paradossale, io credevo di fargli una rivelazione sulla mia famiglia, invece scoprivo che ne sapeva più di me.
Mi rivelò che mia madre, gli aveva confidato che anche mio padre aveva fatto delle successive ricerche sul mio trisnonno, purtroppo la morte arrivò prima che le terminasse. Qualche anno dopo mia madre, quasi come scrupolo verso il marito, che non aveva potuto finirle, pur desiderandolo molto, decise di riprenderle. Non voleva che sapessimo perché aveva il dubbio che la verità, in questo caso scarsamente documentato, potesse non produrre benefici, ma solo recriminazioni verso dei fantasmi di un antico e dimenticato passato. Quando chiese il suo aiuto, la prima cosa che gli domandò fu un suo parere: «Secondo te, tramandare ai miei figli solo la camicia garibaldina, cimelio di un glorioso passato di un loro avo, distruggendo le carte e il diario, ha senso?».
Anche se non conoscevo il contenuto delle carte, le risposi di no, convinto. Nessuno di voi avrebbe potuto cambiare il passato, pertanto, a cosa valeva cancellarlo? Bisognava invece tramandarlo così com’era, completo di ogni possibile congettura e tutti gli altri interrogativi che avrebbero potuto suscitare. Quando però lessi le carte, il diario, e mi raccontò delle conclusioni che avevano preso forma nella mente di mio padre, compresi meglio le sue perplessità. Ne discutemmo molte atre volte e a lungo, e Antonia, che interveniva di rado, inaspettatamente volle dire la sua: «Nel mio paese - disse - non abbiamo memoria del nostro passato, perché qualcuno ha deciso con volontà e determinazione di cancellarlo e addirittura falsificarlo. Ho sempre pensato che il passato deve essere disponibile per tutti, perché spetta alle singole persone decidere se e cosa ricordare».
Anche se molto incuriosito da quello strano mistero, accettai la proposta di Luigi di riparlarne il giorno dopo, assicurandomi che mi avrebbe raccontato quanto avevano scoperto.
Dopo la pizza, passeggiammo fino a piazza Bellini, dove impattammo in una fiumana di giovani. Avremmo desiderato sederci per chiacchierare ancora qualche minuto, ma ci rendemmo conto di essere fuori luogo, e decidemmo, con saggia maturità, di tornarcene a casa.
La mattina seguente, di buon’ora, Luigi si presentò a casa. Pensavo avremmo parlato consultando le carte, invece lui aveva in programma un giro dei luoghi, dove si era svolta l’ultima parte della vita del mio trisnonno. Clara dimostrò molto entusiasmo per l’idea. Antonia rifiutò decisamente, dicendo che tornare in quei luoghi senza la signora, l’avrebbe intristita.
La prima tappa del nostro viaggio nella memoria fu l’archivio del Banco di Napoli, l’edificio che la sera precedente avevo notato di fronte alla pizzeria. Luigi ci disse che avevamo appuntamento con Arnoldo Tullis, un suo amico funzionario della Fondazione, che ci avrebbe accompagnato nella visita.
Mentre ci incamminammo nuovamente per Spaccanapoli, mi venne da riflettere sul fatto che pur essendo nato e cresciuto in quella città, tornarvi dopo la vendita della casa sarebbe stato molto più improbabile, e qualora questo fosse accaduto, l’avrei girata come un turista qualsiasi; come stavo facendo ora.
Il funzionario ci accolse con grandi sorrisi, doveva avere su per giù quarant’anni, occhiali vintage e una zazzera molto scompigliata. Notai subito che il rapporto tra lui e Luigi era molto informale; segno di una buona amicizia. Arnoldo ci spiegò che la Fondazione era ospitata in due palazzi attigui, il palazzo Ricca e il palazzo Cuomo. Racchiudeva quasi tutto l’archivio cartaceo degli antichi otto banchi pubblici napoletani che, allora, avevano lo scopo di intermediare tra venditori e compratori, ponendo un freno al dilagare dell’usura cui erano sottoposti, principalmente, i meno abbienti. Dopo l’unità d’Italia e l’esilio dei Borbone, tutte le storiche carte rimasero chiuse negli archivi del Banco di Napoli per decenni, fintanto la Fondazione non decise di renderle pubbliche e cominciò la loro catalogazione.
Mentre ci guidava per i vari piani e le numerose stanze, Arnoldo ricevette da Luigi un foglietto; lo lesse e si diresse a passo spedito verso uno scaffale, da cui estrasse un grosso e pesante librone che, con l’aiuto di Luigi, appoggiò su un tavolo. Cominciò a sfogliarlo e trovato quanto cercava, indicò una pagina. Allungai il collo verso il libro e mi accorsi che la grafia sui fogli era uguale a quella di una delle carte che avevo trovato nella scatola.
«Questo è il conto di deposito del tuo trisnonno» disse Luigi indicando un punto preciso sulla pagina, «nelle righe successive sono annotate tutte le varie operazioni di vendita e acquisto di prodotti che venivano fatto a mezzo banca. A un certo punto del registro c’è l’iscrizione di una considerevole somma, data con fido di credito a un nobile del tempo, come prestito fiduciario. Le altre annotazioni riguardano invece, dei prelievi contanti effettuati dalla moglie, e altri fidi in favore dell’Ospedale degli Incurabili, per il pagamento delle rette mensili per la degenza del marito. Pochi mesi dopo la morte del tuo trisnonno, la moglie ritirò tutto il denaro depositato e chiuse il conto».
Lo guardai con un’espressione perplessa e non sapendo cosa dire gli domandai: «Quindi?».
«Per farla breve» rispose Luigi «dall’analisi di queste scritture e da altre sue ricerche, tuo nonno ha concatenato due importanti eventi accaduti negli ultimi due anni di vita di suo nonno. Il primo riguardante il prestito di quell’ingente somma, che dalle ricerche è risultato insoluto; il secondo riferito al ricovero agli Incurabili avvenuto per “male di delirio”, in altre parole: per pazzia. Possibile, quindi, che il tuo trisnonno, nel tentativo di recuperare il prestito dal nobile, abbia commesso qualche infelice azione che, opportunamente sorretta da qualche testimonianza e la dichiarazione di un medico compiacente, gli abbia aperto le porte della casa dei matti degli Incurabili».
Clara ed io, quasi simultaneamente, ci sedemmo sgranando gli occhi verso Luigi e il funzionario. «Purtroppo», confermò quest’ultimo annuendo con il capo «a quei tempi, pur di liberarsi di un creditore, di un rivale in affari o in amore, i nobili utilizzavano questa pratica dell’internamento coatto; senza farsi scrupolo delle conseguenze».
«E come si è giunti alla conclusione dell’infelice azione?» Chiesi abbastanza frastornato dall’idea che il mio avo fosse caduto in una trappola che ne avesse provocato una morte così terribile.
Giulio rispose che, come si legge nel diario, mio nonno scrisse di aver scoperto che il Barone Maurizio di Pietramolata, il nobile a cui era stato fatto il fido, avesse denunciato suo nonno per calunnie, e che due mesi dopo la sua morte in ospedale, il barone venne ucciso da alcuni briganti sui monti della Sila. Briganti in seguito catturati e uccisi dai militari del Regio esercito. Raccontata così, poteva apparire come una semplice casualità, se non fosse stato per un particolare che saltò agli occhi di tuo padre, quando anche lui cominciò a fare delle ricerche su quella oscura vicenda: dal contratto di vendita del podere di Casamarciano si desumeva che uno dei briganti portava lo stesso cognome del secondo marito della tua trisnonna.
Ricordo che chiusi gli occhi e sospirai profondamente una, due, tre volte. Quello che nelle parole di Luigi sembrava essere così lineare, mi stava facendo scoppiare la testa. Dissi che avevo bisogno di una pausa e di un buon caffè.
Il funzionario colse l’occasione per svincolarsi da quella scabrosa e imbarazzante situazione, dicendo che doveva lasciarci per altri impegni di lavoro. Lo salutammo e imboccammo la rampa di scale che ci avrebbe portato all’uscita. Quando arrivammo nel maestoso androne, mi voltai per dare un altro sguardo alle finestre di quell’enorme palazzo antico; custode del tempo, delle fortune e delle miserie di un popolo. Quanta memoria e quante migliaia di storie erano accatastate su semplici ripiani, fissate su fogli inermi, vivi solo di quello che raccontavano elencando date, numeri e causali. Storie dimenticate, abiurate o perse nell’oscurità della menzogna. Storie ormai buone solo per gli studiosi, che non hanno interesse a raccontarle una ad una, ma solo a descriverle nel loro insieme.
Dopo il caffè Luigi ci chiese se volessimo continuare il giro visitando l’ospedale degli incurabili, e infine il cimitero delle 366 fosse. Sia io che Clara decidemmo di ritornare a casa; le emozioni prodotte da quelle rivelazioni erano state abbastanza forti, e non eravamo nello stato d’animo giusto per continuare, rivedendo dei luoghi che ci avrebbero angosciato ulteriormente. Dalla narrazione di Luigi si palesavano ben due omicidi e un matrimonio a titolo di compenso di uno dei due. Fatti insignificanti nel coacervo delle vite che si succedono, l’una a discapito dell’altra. Forse aveva ragione mia nonna: ritrovare la memoria non può cambiare ciò che è avvenuto in passato, ma spesso lasciare tanto amaro in bocca.
Tornati a casa, decidemmo di distruggere tutte le carte e presi per me solo il cimelio. Clara espresse il forte desiderio di voler andare via prima possibile: «Questa casa» disse, molto provata, «mi è sempre andata stretta, ora mi sembra di soffocarci dentro».
Poiché la vendita dell’appartamento avrebbe preso tempi indefinibili, delegammo Antonia, anch’essa erede al pari nostro, di seguirne tutte le fasi. Due giorni dopo, Clara ripartì per l’Australia ed io per Trieste. Prima di salutarci in aeroporto, ci promettemmo che la prossima volta che ci saremmo incontrati lo avremmo fatto in Australia, da lei, o a Trieste, da me. Senza dirci nulla avevamo entrambi convenuto di non tornare più a Napoli: ormai, il nostro futuro era altrove.
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