«Donna Concè, se io vi faccio una confidenza, voi mi dovete credere. Gesù mi guardate cu na faccia, sembra che non mi conoscete. Ve lo ripeto, Masaniello e affattuchiàt. Vò giuro sulla fessa di mia figlia Carolina che se si ammala pur’essa, noi ci dobbiamo solo jetta a mare».
Donna Concetta assentiva con il capo, senza fare domande o commenti. La ascoltava seduta su una seggiola, dove al posto della vecchia impagliatura c’era un groviglio di corde, che la sostenevano a malapena. Peppe il chianchiere l’aveva presa a ben volere, e per qualche avanzo di carne, che lei rivendeva al mercato nero, l’aveva incaricata di fare la guardia al banchetto, e scacciare le mosche che ronzavano intorno alla mercanzia. Tutte le persone che uscivano dalla chianca con un involto in mano, avevano il diritto di poterle carezzare la gobba, auspicando di riceverne fortuna, e lei, con un cenno del capo coperto dai radi capelli bianchi, li ringraziava.
La accarezzavano cercando fortuna, proprio da lei, che aveva vissuto una vita infame, tra infinite disgrazie. L’unica fortuna della sua vita, l’ebbe quando appena neonata, cadde dalle mani inesperte della giovane mamma, rompendosi la spalla destra, su cui sarebbe cresciuta quella piccola escrescenza ossea, molto simile a una gobba.
«Va buò io questo vi dovevo dire» concluse la donna «mò vi lascio, vado in chiesa, per pregare l’anima e chillu povero giovane, sperann ca o Signore aiuta a iss e a nuie».
È fatto l’inciucio, la signora Nunziata lasciò donna Concetta a tribolarsi nei suoi pensieri.
«Mancàv sul a' fattùr.» Disse Masaniello sempre più sconfortato, dopo aver ricevuto la spiata di donna Concetta. Quelle quattro vaiasse ne pensavano una più del Diavolo, pur di raccattare un’oncia d’olio. Masaniello scopriva nemici e nuove congiure ogni ora che passava.
Era seduto sulla sontuosa sedia di seta e raso che gli aveva regalato don Giulio Genoino, quand’erano ancora amici, e con gli occhi chiusi, pensava, pensava, pensava. Però appena li riapriva, non ricordava più nulla di quei pensieri.
Gli avevano detto che tutte le persone importanti, quando avevano da prendere delle decisioni, facevano così. Perciò lui non sarebbe mai diventato una persona importante. D’altronde non sapeva neppure scrivere, solo leggere qualche parola, che aveva imparato a distinguere tra le altre.
Eppure, le decisioni importanti era stato capace di prenderle, e ne aveva dato prova. Quando il problema era davanti a lui, e tutti si aspettavano desse un ordine, non aveva incertezze; comandava rapido e risoluto. Di pensare, invece, non era proprio capace. Si sentiva forte solo se aveva il popolo affianco; era sempre stato un capopopolo, mai un pensatore.
Don Giulio Genoino, era un vero pensatore. Lui sapeva bene come si faceva a pensare; aveva studiato tanto per imparare a farlo.
Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare in tondo per la stanza, fece pochi passi e si ritrovò al punto di partenza. «Comm è peccerella chesta stanzà» si disse e, quasi a voler rincuorare la sua intelligenza, aggiunse: Sarà questa la ragione per cui nun riesco a pensà?»
Guardò le pareti spoglie, l’intonaco cadente, e sorrise all’idea che presto l’avrebbe fatta abbattere, per costruire al suo posto un vero palazzo; come quello dei signori, come ora si addiceva alla sua persona.
Quel giorno ci sarebbe stata la processione della Madonna del Carmine e lui non ci sarebbe andato. Non era mai successo finora. Era sempre stato in prima fila con i suoi amici e compari del mercato, perché in quel giorno i nobili e il viceré dispensavano monete e frutta secca.
Quella folla amica, ora gli faceva paura. Lo accusavano di essere un traditore, amico dei nobili e venduto al viceré.
Era successo tutto così in fretta, che non si era reso conto di quanto male può provocare l’invidia nel popolino. Eppure, li aveva portati a una inimmaginabile vittoria; le odiose gabelle erano sparite dalla sera alla mattina. Presto avrebbero goduto del privilegio di Colaquinto, uguagliandoli ai nobili nella gestione della città, e obbligando tutti a pagare le tasse, secondo i loro averi.
Si rimise a sedere e, quasi fosse un moribondo, cominciò a tornare indietro con la memoria fino all’alba della domenica in cui Marco Vitale gli recapitò la missiva di don Giulio Genoino. C’era scritto: “Masaniello, l’ora del popolo è arrivata. Spetta a te portarlo alla vittoria, contro i soprusi dei nobili”.
Masaniello se la fece rileggere più volte, mentre, accucciato in un cantuccio di quella stessa stanza, si lisciava inquieto il pizzetto. Era esitante, finora le proteste erano state spontanee, senza capi e soldati; con quella missiva don Genoino, lo aveva eletto a capo della rivolta.
Mentre meditava, sentì delle voci provenire dalla piazza. Vitale, che si era affacciato a una finestra, gli fece segno di alzarsi e guardare.
Masaniello vide una folla che gridava sotto la sua casa: Pane e giustizia, pane e giustizia; e intanto cresceva occupando l’enorme piazza. Quando si affacciò al balconcino, un clamore entusiasta rimbombò nell’aria come un colpo di cannone, e l’urlo cambiò in: «Masaniè vulimme pane e giustizia! Masaniè, pane e giustizia!».
Masaniello ricordò l’emozione che provò nel sentire invocare il suo nome e capì che don Genoino aveva ragione. Alzò la testa e le braccia al cielo, come invocasse l’investitura divina, poi le distese verso la folla è disse: «Viva 'o Rre 'e Spagna, mora 'o malgoverno».
In pochi giorni erano accaduti un susseguirsi di eventi fino ad allora inimmaginabili: il viceré era scappato dal suo palazzo e si era asserragliato nella fortezza di Castel Nuovo; per le strade i suoi uomini avevano preso il posto delle guardie reali, e mietevano giustizia contro tutti gli affamatori del popolo; le case dei gabellieri erano state spogliate e date alle fiamme; il Cardinale Filomarino, benedicendolo come l’uomo della provvidenza, aveva intercesso presso il Governo per far cancellare le gabelle; il popolo obbediva a ogni suo ordine come un sol uomo. Solo don Genoino non appariva soddisfatto.
Quando finalmente comprese che il vecchio prete, voleva controllare lui la rivolta; Masaniello si rifiutò di assecondarlo. Non si era messo a capo della lotta contro il malgoverno, perché altri nobili prendessero il posto degli odiati oppressori. Dio e il suo popolo, lo avevano eletto a essere l’unico portavoce verso il Re di Spagna, e il vecchio don Genoino doveva farsi da parte, altrimenti la sua testa avrebbe fatto compagnia a quella di don Giuseppe Carafa.
Dopo tanti giorni di frenetica euforia, ora cominciava a sentire la fatica, rendendosi conto di quanto fossero stati interminabili. Il tempo che prima scorreva veloce, sembrava essersi dilatato senza alcun limite. Non riconosceva più il giorno dalla notte, non avvertiva più quand’era il momento di dormire, di mangiare, di ascoltare, di fare l’amore. Non godeva più del sole, del mare, del silenzio delle stelle.
Non era più il Tommaso Aniello d’Amalfi di una volta, ormai lo dicevano tutti, e anche lui se lo sentiva sulla persona e nelle carni. Era diventato quello che non avrebbe mai voluto essere: un assassino, un dittatore, un uomo senza amici.
Quello stesso popolo che fino a ieri lo osannava come un Dio, e più di San Gennaro, ora tramava contro di lui, in ogni casa, per ogni strada. Più ne faceva ammazzare, più sembrava si moltiplicassero. Erano come tante formiche, che nonostante le calpestasse lungo la loro via, accorrevano più numerose; indifferenti alla morte.
In questa orrida confusione tra amici e nemici, l’unica persona davvero fedele, Marco Vitale, era scomparso. L’aveva fatto cercare ovunque, ma sembrava essere svanito nel nulla. Eppure, fino alla sera prima era stato sempre al suo fianco, timoroso che qualche bandito assoldato dai nobili, potesse vigliaccamente colpirlo alle spalle e porre fine alla sua vita.
Cos’altro si aspettava quel popolo ingrato, che cacciasse anche il Re?
Pazzi loro e pazzo lui, che aveva creduto a don Genoino e a tutte quelle canaglie che, travestiti da amici, avevano approfittato di lui per saldare i conti con i loro nemici.
Ora che tutto era concluso, pensavano di non avere più bisogno di lui. Volevano sbarazzarsene come una cosa inutile. Per farlo senza sporcarsi la coscienza andavano dicendo in giro che era diventato pazzo, che era un ricchione, che era affattucchiat’. Ma lui non voleva più morire per loro.
Quella notte ci sarebbe stata la luna piena. La luna che guida i marinai verso il mare aperto, o li fa attraccare nei porti bui. La conosceva bene quella luce, perché grazie a lei riusciva a sfuggire alle guardie, mentre faceva il contrabbando con la sua barca.
Doveva farsi vedere da tutti alla processione della Madonna del Carmine, e poi sparire, attraverso le grotte sotto la città, fino allo strapiombo di Santa Maria del Carmine; dov’era nascosta la barca. Avrebbe cominciato una vita nuova, dimenticando il passato, aspettando che Iddio lo chiamasse a scontare dei peccati non suoi.
Si alzò dalla poltrona e dal baule pieno di vestiti, regalatigli dal viceré, scelse il più bello e lo indossò. Chiamò Bernardina che vedendolo con quell’abito da festa, si meravigliò molto. Erano d’accordo che non sarebbero andati alla processione, vestito così sembrava avesse cambiato idea. Lui le prese le mani e, avvicinandole alla bocca per baciarle le disse sottovoce: «Bernardì, nuje chesta notte ce ne fuimm. Chistu popolo e merda a capa nostra non la merita. Chiama Ciruzz e Maddalena». E, tra lo stupore della moglie, le rivelò il suo piano.
Bernardina lo ascoltò annuendo con il capo. Avrebbe voluto ribattere che scappando avrebbero dovuto rinunciare a un futuro di rispetto e agi. Lui lesse nei suoi occhi quel pensiero, e prima di ripeterle tutto quello che avrebbe dovuto fare perché nessuno si accorgesse della loro fuga, la baciò sulla bocca e le disse: «Bernardìn ‘o fuìmm o morìmm».
Il pianto del bambino, tenuto per i piedi dalla levatrice e scosso a testa in giù per liberarlo da eventuali ingestioni del liquido amniotico, riecheggiarono come una musica tra le pareti della camera dove Rosa aveva appena partorito. La porta si spalancò, quasi a voler diffondere quel pianto oltre le mura della casa, e Pasquale irruppe chiedendo: «Che è?»
«Maschio», rispose la levatrice, appoggiando il bimbo su una coperta distesa sul letto con cui lo infagottò. Pasquale si avvicinò per guardarlo meglio, poi rivolto alla moglie, disse: «Marcò, sàdda chiàmm Marcò, comm o’ mègli cumpagn mio». La donna non rispose, chiuse gli occhi e, stremata dalla fatica, si addormentò.
«Vabbuò ‘on Pascà, chiammàtelo comm’ vulit’», disse la levatrice infastidita, «mò però ascit’ che Rusìnella addà arripusà».
Pasquale lanciò un ultimo sguardo al viso del fagottino e ridendo uscì. Era diventato padre, pensò uscendo dalla casa per dirigersi verso la spiaggia, dove i suoi amici barcaioli lo aspettavano per festeggiare. Nonostante fossero passati due anni e l’eco delle gesta della sua precedente vita erano solo un bisbiglio lontano, ancora non si capacitava di essere riuscito a farla franca. Quello che avevano messo in atto lui e Bernardina, era stato un piano pericoloso e molto ardito.
L’idea gliela aveva data Marco Vitale, l’unico vero amico di quei giorni folli. Gli disse: «Masaniello, se le cose dovessero volgere al peggio, tu lascia Napoli, cambia il tuo nome e fuggi in Calabria. A Falconara, c’è un piccolo borgo dove vive una comunità Albanese che non parla neppure la nostra lingua. Sono praticamente fuori dal Mondo e vivono di pastorizia e pesca. Li potrai rifarti una vita nuova senza che nessuno venga mai a cercarti».
Quando Ciro e Maddalena si presentarono a casa sua, diede loro le chiavi di casa e cento scudi d’oro, come regalo per il loro prossimo sposalizio. Aggiunse che lui e la moglie sarebbero andati ad abitare in una nuova casa, vicino al palazzo del viceré. L’unica cosa che voleva in cambio, era che restasse un segreto tra loro, e che Ciro lo raggiungesse nella sacrestia della Chiesa del Carmine prima che il cannone sparasse a mezzogiorno. I due giovani non esitarono ad accettare la proposta e Masaniello uscì per andare incontro al viceré nella Basilica del Carmine.
Dopo aver parlato per l’ultima volta in chiesa, tra gli schiamazzi della gente che ormai lo contestava apertamente, fuggì nella sacrestia dove lo aspettava Ciro. Gli fece indossare i suoi abiti e uscì dal retro. Raggiunse il palazzo vicino e attraverso una scala scavata nel tufo discese fino a una enorme cisterna da cui si ripartivano numerose gallerie che lui conosceva bene. Dopo un lungo e insidioso percorso vide la luce e l’orizzonte del mare. Uscì dal piccolo anfratto e si trovò sullo strapiombo. Sotto di lui, Bernardina era già nella barca, si lasciò scivolare sul crinale, e a nuoto la raggiunse. Rimasero nascosti sotto le reti fino al calare delle tenebre, poi lasciò che la barca prendesse il largo, spinta dalle correnti.
Prima di arrivare a Falconara, fecero sosta su alcune spiagge per cercare cibo e acqua. Durante una di queste, apprese da alcuni pescatori che a Napoli, il popolo aveva giustiziato Masaniello.
Quando lo raccontò a Bernardina, lei pianse e si disperò per Ciro; disse che erano stati loro ad averlo fatto morire. Lui la guardò angustiato, non si aspettava un finale così tragico. Credeva che quando si fossero accorti che, seppur con quel pizzetto rosso, non era il vero Masaniello, lo avrebbero lasciato andare. Invece, la commedia non prevedeva cambi di scena: Masaniello doveva morire, e l’uno valeva l’altro.
Rosa e Pasquale ebbero altri quattro figli, a due diedero nome Ciro e Maddalena.
Durante l’ultimo parto Rosa morì. Pasquale visse fino a cinquantasei anni, e un giorno chiamò i figli a raccolta per raccontargli la storia di Tommaso Aniello d’Amalfi e Bernardina Pisa, Re e Regina della città di Napoli per dieci giorni.
«Figli miei, primm e murì, vaggia ricère nu segrèt».
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