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L’ispettore Lorenzi non amava il circo, lo considerava il braccio della morte di animali senza colpa, usati per profitto da bipedi aguzzini. Eppure, suo malgrado, era costretto a visitare quello che da quindici giorni aveva piantato le tende in città.
Uno dei trapezisti, Igor Swalenko, pochi minuti dopo essere miracolosamente sfuggito a un incidente durante il suo numero, era stato assalito da una tigre mentre percorreva lo spiazzo per tornare alla sua roulotte. Le sue condizioni erano gravi, ma non era in pericolo di vita, invece la tigre, unica colpevole con verdetto inappellabile, era stata prontamente abbattuta.
Il magistrato, un giovane di recente nomina, prospettandogli una rapida indagine, gli aveva suggerito di invitare i responsabili del circo a sospendere gli spettacoli e sbaraccare entro qualche giorno. Soluzione da Ponzio Pilato che avrebbe chiuso il caso e alleggerito il numero di fascicoli aperti su cui, Lui, il magistrato, avrebbe dovuto lavorare. D’altronde, il colpevole, che aveva aperto la gabbia e assalito il trapezista, era stato, in piena flagranza di reato, scoperto e punito. Eh, sì, perché obbligare un animale a vivere da reclusi una vita intera, ammansito con droghe e digiuni, per costringerlo a saltare e ruggire a comando, non rappresenta un reato. Invece, rispondere al naturale istinto contro un esemplare del genere umano, è indubbiamente un reato.
Una gran brutta gatta da pelare, perché lui, Lorenzi, la prima cosa che si sarebbe sentita di fare era fermare la persona che invece di usare un proiettile anestetico, aveva adoperato proiettili veri. Sapeva, però, che una tale decisione, pur senza ricevere la censura del magistrato, li avrebbe spinti a percorrere binari con direzioni diverse e che la sua, molto verosimilmente, lo avrebbe portato a deragliare. Dopo trentadue anni di servizio, in cui ne aveva visto e fatto di tutti i colori, rischiare di inimicarsi un giovane magistrato era una gran rottura di palle.

Davanti al circo c’era una gran traffico di auto e un folto gruppo di vigili che cercavano di farle defluire dal parcheggio interno. Evidentemente le persone che avevano assistito allo spettacolo, saputo dell’incidente, cercavano di allontanarsi in tutta fretta. Mischiati nella confusione un gruppo di animalisti, con delle t-shirt nere e cartelli che svettavano sopra le loro teste, inveivano contro qualcuno o qualcosa. Lorenzi scese dall’auto e si avvicinò ad uno di essi. Hanno ucciso la tigre, gli gridò contro un giovane, quasi fosse stato lui a farlo. Il commissario lo superò e per qualche istante si mischiò al resto del gruppetto per ascoltare cosa si dicevano. Quando si accorse che tutti ripetevano la stessa tiritera, si avvicinò a un maresciallo dei vigili urbani presentandosi. Questi lo fece accompagnare all’interno dell’aria dov’erano le gabbie degli animali e gli mostrò la tigre che giaceva immobile sul terreno riversa in un lago di sangue.
Mentre guardava la scena del crimine un uomo azzimato, con il viso sbiancato da almeno due dita di cerone bianco, un cappello a cilindro in testa, gli si avvicinò e si presentò come “l’art director” della pista, nonché presidente della cooperativa che gestiva il circo. Senza dargli tempo di fornire spiegazioni, Lorenzi gli chiese di portargli la persona che aveva sparato e di riunire nella pista tutto il personale. L’uomo lo fissò qualche istante e mentre stava per dire qualcosa, si voltò verso un agente in divisa che gli aveva preso il braccio, invitandolo a fare quanto richiesto dal commissario. Anche Lorenzi si voltò verso l’agente, gli sorrise e lo invitò a chiamare in centrale per far arrivare altri colleghi.
Guardò l’orologio, prese il cellulare e comunicò alla moglie che avrebbe saltato la cena e non sapeva a che ora sarebbe rientrato. La telefonata fu breve, praticamente parlò solo lui. Teresa, la moglie, aveva fatto il callo a quelle telegrafiche informazioni del marito. A chi le rimproverava l’eccessiva arrendevolezza, rispondeva: meglio vedova bianca che vedova, e non aveva tutti i torti.
Un giorno, all’inizio del loro matrimonio, verso le undici di sera, ricevette una telefonata dal responsabile dell’ufficio in cui lavorava il marito e immaginando il peggio, svenne battendo la testa sullo spigolo di un mobile, procurandosi una ferita suturata con dodici punti e una notte in ospedale; la stavano informando che il marito aveva il cellulare rotto e pertanto non era raggiungibile, ma che non si preoccupasse.
Lorenzi ripose il cellulare e si avvicinò alla gabbia che aveva una grata aperta verso l’esterno. Il puzzo di animale di cui era intrisa la paglia sparsa sul fondo era stomachevole. Estrasse dalla tasca un fazzolettino profumato e si coprì il naso, alleviando le narici dello sgradevole odore. Si guardò intorno e vide altre gabbie, dove c’erano leoni, pantere e ghepardi. In fondo all’area, che doveva essere lo zoo del circo, altri animali: cavalli, giraffe, ippopotami, cani, dromedari e in fondo gli elefanti. Povere bestie, pensò, rammaricandosi che lo stato erogasse ai circhi dei contributi, proprio al fine di garantire un’adeguata assistenza agli animali. Avevano ragione gli animalisti, bandire l’uso degli animali nei circhi, aveva un duplice risultato: mettere fine a un’ignominia e risparmiare alcuni milioni di euro l’anno. Una cosa molto semplice, ostacolata dalla lobby circense che filosofeggiava sull’opportunità prodotta dai circhi di permettere ai bambini di vedere animali, altrimenti irraggiungibili.
A interrompere i suoi pensieri ci pensò l’agente scelto Graziani che accompagnava un uomo: sicuramente l’addetto che aveva sparato. Lorenzi lo squadrò qualche istante. Era un tipo mingherlino, di media statura con tratti inconfondibilmente asiatici. Vestiva con una giacca ornata di alamari, tipica del personale ausiliario. Lorenzi gli chiese come mai non avesse usato l’anestetico. L’uomo in un precario italiano gli rispose che avrebbe voluto farlo ma il fucile non era nella gabbia e, indicando un punto alle sue spalle, fece alcuni passi avvicinandosi a una specie di rastrelliera su cui erano appesi degli attrezzi e una scatola con uno sportello a rete, aperta è vuota. Lorenzi osservò la scatola e chiese all’uomo chi gli avesse fornito la pistola. L’inserviente gli rispose che era stato l’uomo della cassa. Alla domanda se sapesse dell’incidente al trapezista, l’uomo rispose di no perché era impegnato a preparare il bridge per gli animali che si sarebbero dovuti esibire dopo. Lorenzi diede un ultimo sguardo alla tigre riflettendo sul fatto che poteva salvarsi o che forse, quella morte, seppure violenta, era meglio di una vita intera passata in gabbia.
Mentre superava il tendone che divideva la pista dalle quinte, trasse dalla tasca della giacca una caramella, la scartò e la mise in bocca. Da quando aveva smesso di fumare, c’era stato una specie di patto con la moglie: lui avrebbe eliminato le sigarette, d’altronde la scoperta di una grave forma di catarro del fumatore, non aveva altra via d’uscita che smettere; e lei si sarebbe presa cura di non fargli mancare mai delle caramelle balsamiche.
Il colpo d’occhio che ebbe entrando nella pista fu notevole, c’erano non meno di ottanta persone, quasi tutte con i vestiti di scena. L’unica cosa che apprezzava davvero nei circensi era l’estrosità degli abiti, il trucco sensuale delle donne, gli splendidi corpi scolpiti da un incessante esercizio fisico. Era stata una pessima idea, non immaginava che tante persone lavorassero in un circo. Fece cenno al direttore di avvicinarsi, gli chiese di indicargli chi avesse visto l’assalto della tigre e, rivolto a Graziani, comandò di far venire delle macchine per portare tutti in centrale.
Per sua fortuna erano solo cinque persone, cui si aggiunse l’asiatico, l’uomo della cassa e l’art director. Avrebbe fatto in fretta, proprio come voleva il magistrato.

Tornò a casa verso le tre di notte, la moglie e il figlio dormivano da un pezzo. Mentre si spogliava per mettersi a letto, si accese nella mente quella che lui chiamava “la lanterna magica”. Una specie di déjà vu delle informazioni raccolte che roteava, prima piano, poi sempre più veloce fino a mostrargli, a sprazzi e scatti, una rapida rielaborazione dell’accaduto. Appoggiò il cuscino sullo schienale del letto, si distese con le braccia conserte, chiuse gli occhi e si concentrò per individuare gli elementi mancanti a quella specie di filmato che gli passava nella mente. Dopo qualche minuto, molto soddisfatto, sistemò il cuscino e cerco di addormentarsi. Mancavano solo poche sequenze affinché tutto fosse chiaro, ora stava alla sua capacità di sbirro, scovarle e incasellarle.
Quando arrivò in questura, trovò ad aspettarlo il collega della polizia veterinaria che gli consegnò il rapporto sulla morte della tigre. L’animale era deceduto in pochi minuti, nello stomaco erano state trovate forti dosi di farmaci sedativi e le sue condizioni generali mostravano una debilitazione causata da mal nutrimento. Nulla di nuovo, pensò Lorenzi e convenne con il collega di chiedere al magistrato un’indagine suppletiva sulle condizioni di tutti gli animali. A ognuno le sue incombenze, si disse, sedendosi alla scrivania. Prese il telefono e ordinò a Graziani di preparare l’auto per andare in ospedale a interrogare il trapezista. L’agente lo informò che il magistrato lo aveva cercato per la stessa cosa e che lo aspettava per andare insieme. Appunto, pensò serrando le labbra, a ognuno le sue incombenze.
Quando arrivarono nella stanza d’ospedale del trapezista, inaspettatamente il magistrato si mise in disparte e lo lasciò fare il suo lavoro senza mai intervenire. Lorenzi, che la mattina si era svegliato di buon umore, dopo una repentina discesa dell’indice, alla notizia della presenza del magistrato, presagiva un finale di giornata in netto segno positivo, come accade in borsa dopo la pubblicazione di un ribaltamento del trend negativo delle società quotate. Quando tornarono in auto, il magistrato ruppe il silenzio e gli chiese cosa ne pensasse. Lorenzi prese una caramella dalla tasca e gliela offrì, il giovane fece un gesto di rifiuto impaziente; l’indice stava di nuovo scendendo, rimise la caramella in tasca e gli chiese di attendere ancora qualche ora, doveva fare qualche breve interrogatorio al circo, poi, nel pomeriggio, gli avrebbe espresso il suo pensiero. Il giovane annuì e, a sorpresa, aggiunse che lui doveva ancora farsi le ossa ed era curioso di vedere come un veterano, tanto blasonato, avrebbe affrontato il caso. L’indice era improvvisamente schizzato in alto, la sua quotazione rischiava di essere sospesa per eccesso di rialzo. Lorenzi pensò che il magistrato era davvero strano, prima voleva chiudere in fretta la vicenda, ora ne sembrava interessato quasi fosse un caso da manuale. In fondo, agli occhi di un cronista o di un comune cittadino, si trattava solo di una banale storia di un incidente sul lavoro; come ne accadono spesso.
Lasciato il magistrato nei pressi di una libreria, si fece accompagnare al circo. Una piccola folla di curiosi si aggirava all’esterno della recinzione su cui erano stati fissati dei lunghi teloni che impedivano di guardare verso l’interno. Le auto verdi della polizia veterinaria sostavano nei pressi della biglietteria e una decina di persone con delle pettorine nere con la scritta polizia veterinaria e ambientale, si aggiravano nell’area dello zoo.
Lorenzi avvicinò il suo omologo e chiese se avesse delle novità. L’ispettore Santarelli espresse i suoi dubbi sul futuro del circo, considerate le numerose illegalità riscontrate. Gli anticipò che avrebbero portato via tutti gli animali e che il fucile era stato ritrovato in un armadietto nel carrozzone della cassa con una sola cartuccia, scaduta da oltre otto mesi. Il direttore aveva cercato di minimizzare asserendo che si era trattato di una disattenzione, invece lui era sicuro del contrario, le cartucce per quel fucile, costavano duecentocinquanta euro ognuna; una pallottola cento volte meno.
Lorenzi lo ringraziò e si diresse verso la gabbia della tigre. Notò che la paglia era stata sostituita, non emanava più il lezzo della sera precedente, ma l’inconfondibile odore delle spighe di grano. Un piacere per lui che da piccolo amava distendersi sui covoni nella stalla del nonno, muovendosi lentamente con la schiena sulle balle, fino a sentire le minuscole cannucce rompersi, sprigionando nell’aria un odore profumato e pungente. Pensò invece alla tigre. La immaginava accovacciata su quella lurida sterpaglia che era parte della sua vita, intontita dagli anestetici, anch’essi parte della sua quotidiana esistenza. Chiuse la porticina della gabbia e notò che il caletto aveva un fermo di sicurezza che si sganciava rapidamente grazie ad una corda fissata ad una carrucola sul tetto della gabbia. La manovra per l’apertura era semplice, ma assai visibile se fatta tirando la corda da terra. Guardò verso l’alto. Bisognava essere un contorsionista per arrivare in cima senza dare nell’occhio e nascondersi nella piccola intercapedine di lamiera sovrastante la gabbia. Da quella posizione si poteva facilmente tirare la corda verso l’alto e aprire lo sportello, senza essere visti. Povera tigre, pensò ancora, aveva fatto quello che gli avevano insegnato i suoi addestratori, però quella volta, si era trovata in uno spazio libero e, probabilmente, cominciò ad esplorarlo con curiosità. Poi doveva aver visto l’uomo, o forse era stato lui a vedere prima lei, sicuramente nervoso e arrabbiato per essere scampato a un incidente che gli aveva rovinato l’esercizio. Lo conosceva, certo che lo conosceva. Forse da dietro le sbarre il trapezista gli sarà sembrato anche simpatico, mentre passava con la mano alzata come se volesse lanciarle un saluto, tutte le volte che tornava verso il suo carrozzone tra gli applausi scroscianti che ancora si udivano dalla pista; prima che lei venisse spinta ad attraversare il cunicolo, dove un altro uomo, armato di frusta e scudiscio, l’aspettava per dimostrare la sua supremazia sulle bestie, ordinandole dove andare e cosa fare. Forse quella sera lei ruggì nel vederlo, ma non fu compresa. Anzi lui non mostrava alcuna felicità nel vederla libera a pochi passi, e dovette indietreggiare. Forse ruggì di nuovo dimenando l’enorme coda e facendo qualche altro passo nella sua direzione, accorgendosi che lui stava per fuggire. Forse voleva fermarlo con l’unica cosa che possedeva per farlo, la bocca, ma non lo immaginava tanto fragile e quando le zanne si conficcarono nei tessuti della carne, il sapore e l’odore del sangue dovettero fare il resto. Lorenzi era certo che quelle erano solo alcune delle immagini mancanti dalla sua “lanterna magica”; le altre, con la sua proverbiale pazienza, le avrebbe senz’altro recuperate in breve tempo.
In alcuni casi anche un pizzico di fortuna non guasta, e fu così che passando davanti ad un carrozzone, sentì distintamente la voce di due donne all’interno. Si fermò a origliare e colse un pezzo di conversazione in cui, le voci femminili, si lamentavano di aver fatto una pazzia, fortunatamente andata storta. Si allontanò di alcuni passi e fece segno a un uomo di avvicinarsi, chiedendogli a chi appartenesse quel carrozzone. L’uomo, anche lui in uno stentato italiano, gli rispose che era del trapezista ferito dalla tigre.
La porta del carrozzone si aprì e ne uscirono due donne. Una molto esile, con una folta capigliatura rossa, l’altra di statura media, bella e formosa, con un caschetto biondo brillante. L’uomo gli disse che la donna bionda, Manuela, lavorava alle casse ed era la compagna del trapezista, Fiona, Lorenzi sorrise e lo ringraziò delle informazioni, scuotendo leggermente il capo, e si allontanò. Era chiaro che l’incidente e l’assalto della tigre erano parte dello stesso obiettivo, doveva solo trovare il movente.
Si guardò intorno alla ricerca dell’art director. Quando lo vide, lo chiamò e con passi veloci lo raggiunse. La faccia del direttore, nel vederlo, si rabbuiò visibilmente, Lorenzi pensò che il momento potesse apparire il meno opportuno, considerato il pasticcio in cui si trovava l’uomo, con la requisizione di tutti gli animali e la denuncia per maltrattamenti. Il direttore, invece, fece buon viso a cattivo gioco, e lo guidò verso la pista per mostrargli com’era accaduto l’incidente al trapezista. Giunti all’interno, ordinò di abbassare gli attrezzi che furono calati dall’alto con un argano elettrico. Avvicinatosi al trapezio, indicò la sbarra che Igor avrebbe dovuto afferrare dopo il triplo salto mortale e che, per un movimento sbagliato, invece aveva urtato facendola oscillare. Un compagno, ancorato con un cavo d’acciaio, tempestivamente si era lanciato nel vuoto agganciandolo miracolosamente. Lorenzi riconobbe che l’espressione di sgomento che il direttore ebbe, pensando che il trapezista sarebbe morto, era sincera. Dalle sue parole venne fuori che Igor era un vero fenomeno nel suo lavoro, anche se molto spregiudicato Alcuni anni prima saltando da un trapezio a venti metri d’altezza, verso una corda pensile da cui doveva scivolare velocemente sul palcoscenico, uno dei guanti si lacerò mettendo a nudo il palmo che prese letteralmente fuoco, per l’attrito. Da allora indossava dei guanti speciali. Lorenzi scosse il capo paventando la possibilità di una manomissione dell’attrezzo. Il direttore aggrottò la fronte, ridusse gli occhi a una fessura e negò fermamente una tale ipotesi, poiché lo stesso attrezzo era stato usato da altri trapezisti nello stesso numero. Lorenzi arricciò il naso, salutò il direttore e uscì alla ricerca di Manuela.
Scoprì che la donna era andata in ospedale e decise di ripiegare su Fiona, la contorsionista. La trovò e il tono con cui le ordinò di seguirla in questura, spaventò all’istante la donna. Era un tono freddo, deciso e provocatorio, faceva parte di uno dei suoi migliori numeri; incuteva rispetto e soggezione. Stabiliva con quelle poche parole chi era a comandare il gioco e chi doveva subirlo.
Giunti all’auto che lo aspettava fuori dal circo la fece salire e disse all’agente che li avrebbe raggiunti entro pochi minuti. Guardando l’orologio si avvide che era quasi ora di pranzo, chiamò la moglie con il cellulare comunicandogli che a breve, sarebbe tornato a casa.

Passarono tre ore prima che Lorenzi arrivasse in questura, la ragazza con la chioma rossa sembrava scomparire nella poltrona del salottino del suo ufficio, tanto era minuta. Si scusò per il ritardo, inventandosi come pretesto che era andato in ospedale per interrogare il trapezista e la sua compagna. La donna sbiancò visibilmente stringendosi nelle spalle e serrando le ginocchia come se volesse trattenere un brivido che attraversandole il corpo, le sollecitava l’uretra. Sembrava essersi ulteriormente rimpicciolita. Lorenzi fece segno all’agente di verbalizzare e cominciò a passeggiare lentamente nella stanza.
Sembrava stesse riflettendo sulle domande da fare alla ragazza, invece ripensava alla discussione avuta durante il pranzo con il figlio che gli aveva comunicato che intendeva, per l’ennesima volta, cambiare facoltà universitaria. Se avesse avuto una famiglia numerosa, l’inadeguatezza del figlio verso lo studio, si sarebbe potuta stemperare negli obiettivi di vita degli altri. Purtroppo, per le avverse circostanze dell’esistenza umana, non era stato così, e quell’unico esemplare generato, stava svelando una pessima riuscita.
Mise una mano in tasca per prendere una caramella ma rinunciò, pensando che gli avrebbe rovinato il gradevole retrogusto dell’ottimo caffè che, solo la sua adorata moglie, sapeva preparagli.
Alle cinque in punto alzò la cornetta del telefono per chiedere al magistrato se potesse riceverlo. L’interrogatorio era stato di una brevità sconcertante. Aveva raccolto dalla ragazza una paginetta di dichiarazioni, rilasciate senza opporre alcuna resistenza e senza nessun azzecca garbugli tra i piedi. Ora spettava al magistrato decidere, lui la sua parte l’aveva terminata.
Alcuni giorni dopo, nel passare accanto al grande spiazzo dov’era stato il circo, non poté fare a meno di pensare che, nonostante qualche suo pregiudizio sul giovane, il magistrato avesse preso una decisione saggiamente proporzionata alla gravità della vicenda. Il caso era stato archiviato dal versante penale come incidente e Fiona non era stata oggetto di ulteriori indagini. La versione rilasciata dietro suo indiretto suggerimento, era che Fiona aveva ammesso di aver involontariamente sganciato la corda, provocando l’apertura della gabbia e di essersi messa in salvo infilandosi nell’intercapedine esterna del soffitto. Questa era quella che aveva ascoltato anche l’agente scelto Graziani. La Verum, come dicevano i latini, raccontata mentre Graziani era a prendere un caffè e fumarsi una sigaretta, era che Manuela, stanca dei maltrattamenti e dell’avversione che il trapezista aveva a che il figlio, abbandonato in un orfanotrofio in Belgio, si ricongiungesse a loro, avesse convinto Fiona ad assecondarla nel suo piano rivolto a punire severamente l’uomo. Nessuna delle due c’entrava con l’incidente al trapezio, anche se Graziani non credeva che Manuela volesse solo spaventare l’uomo, ma piuttosto tentare di levarselo definitivamente dalle scatole.
Graziani aveva dovuto scegliere in fretta e aveva deciso per la libertà di Fiona. D’altronde anche Manuela, per com’erano andate le cose, sarebbe stata costretta a decidere della sua vita e scegliere tra un uomo che ormai detestava e la ricongiunzione con il figlio.
Questo spettava solo a lei.

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