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Oltre il vetro c’è un corpo che conosco bene: è quello di mio fratello; lo hanno operato stamani d’urgenza. Quando il chirurgo è uscito dalla sala operatoria non mi ha dato molte speranze «Me lo hanno portato morto, l’ulcera curata male, l’ha devastato. Spero riesca a farcela. Auguri.»
Sembravano frasi di circostanza, ma da come le aveva pronunciate avevo colto una sincera condivisione di dispiacere.
Dall’aspetto poteva avere l’età di mio padre e ho pensato che forse anche lui potesse avere un figlio dell’età di mio fratello. Chissà cosa passa per la testa di un chirurgo, quando è impegnato a salvare una vita sconosciuta, con cui condivide solo il momento più triste e disperato della sua esistenza.
Lo ringraziai e lui, svelto, si allontanò alla ricerca della normalità fatta di sorrisi e gioie. Siamo tutti interdipendenti, riflettei, ma qualcuno lo è più di altri. Imparare a scrollarsi da dosso un fardello grande come il dolore, non lo penso umanamente possibile, anche se è passeggero, anche se di routine. Sono certo che resta sempre qualcosa di tetro e terribile dentro, che si accumula, si accumula e ci seppellisce.
Oltre il vetro c’è un uomo con una divisa verde da infermiere, che non conosco, ma che mi guarda. Forse perché la mia testa sovrasta di molti centimetri tutti, e i miei occhi non si confondono dietro il viso degli altri. Si muove con un’espressione sul viso impaziente.
“Il turno in cui ci sono le visite dei familiari ai pazienti lo cambio sempre, oggi non ho trovato nessuno disponibile, ma passerà! Vedere gente che si da’ di gomito per farsi spazio e arrivare in prima fila davanti al vetro, con gli occhi lucidi e un falso sorriso stampato sul viso, non lo sopporto. Li capisco, li giustifico, ma non riesco a fare a meno di sentirmi osservato, giudicato, mentre lavoro. Tutte quelle mani che si agitano oltre il vetro mi distraggono, sembrano tante ombre nell’anticamera dell’antro di Caronte che cercano di attrarre verso di loro l’anima dei loro cari, nella speranza che rinuncino a imbarcarsi”.
Oltre il vetro ci sono tanti letti e tante persone che giacciono, quasi stessero dormendo. Anche mio fratello sembra che riposi, sereno. È giovane è forte, spero proprio che riesca a farcela. Poi correggo subito il mio pensiero: deve farcela! Se rinuncio a crederlo e come se abbandonassi la cima che gli sto lanciando con la mia presenza. Se fossi credente aggiungerei anche una preghiera alla mia attesa, ma non lo sono e spero solo nella sua forza di volontà, nella sua voglia di vivere. Nostro padre ha lottato tredici anni contro un tumore che doveva portarselo via in sei mesi, spero che lui non sia da meno. La sua gemella vive lontana da molti anni, ha detto che non vuole tornare per vederlo, a dire il vero non è tornata neppure al funerale di nostro padre. Dice che sente abbastanza dolore nel corpo e non vuole che le si fissi per sempre, anche negli occhi. Conoscendo il suo menefreghismo su quanto accade alla sua famiglia di origine, non mi sono stupito, ma sono certo che se fosse capitato a lei, il gemello non avrebbe esitato un solo istante a partire per starle vicino. Mi sono attaccato a ogni stupidaggine pur di farla venire, anche a quello che si dice che i gemelli vivono simbioticamente le emozioni e i dolori. L’avevo chiamata per questo, ma lei si è rifiutata di tentare.
Oltre il vetro ci sono tante macchine da cui si dipartono lunghi fili e cannule di plastica innestate in quelle persone adagiate sui letti. Ci sono dei medici e tanti infermieri che camminano tra i letti, controllando le macchine, i tubi, scrutando continuamente le persone, sembra che aspettino qualche oscuro segno da quei corpi assopiti.
“Quelli che guardano oltre il vetro non possono capire che per me questa gente non esiste, sono solo la ragione dello scorrere del mio orario di lavoro e se non muoiono quando sono in turno, vado via più contento. È brutto vedere un corpo che esce morto da questa stanza, mi viene sempre da pensare di non aver fatto quanto potevo, ma so bene che non è vero. Per molti di quelli che sono oltre il vetro, invece, non è così: non facciamo mai abbastanza, manchiamo sempre di qualcosa. Chi ha un congiunto o un parente e mi conosce, si raccomanda perché io abbia un occhio di riguardo, un’attenzione particolare. Credono che così facendo le cose, taumaturgicamente, possano cambiare. Non pensano che per noi devono essere tutti uguali, tutti sistemati sulla stessa riga di partenza e similarmente accuditi. Non sono io, che li ho fatti ammalare, investire, drogare, litigare. A me tocca aiutarli a che trascorrano in pace e serenità, il tempo che resteranno qui a lottare con il proprio corpo, la propria mente che lavora incessantemente per riparare ogni danno. A volte, quando finisce il turno, mi fermo alla cappella dell’ospedale e ringrazio il Signore per avermi aiutato a sopportare. Un giorno il parroco mi ha visto, si è avvicinato e mi ha abbracciato in silenzio. Quando si è allontanato ha estratto dalla tasca un fazzoletto e si è soffiato il naso. Ho pensato si fosse commosso, anche se non ho capito per chi, e solo immaginato per cosa. Quando ero ragazzo mio nonno diceva che per comprendere cos’era la fatica e il piacere di vedere una pianta sbocciare e poi crescere, bisognava svegliarsi all’alba e andare a lavorare nei campi. Se fosse ancora vivo, gli direi che con la maturità ho capito che aveva ragione, ma che non gli augurerei mai di dover andare a lavorare in un reparto come il mio, per capire cos’è il dolore o la gioia”.
Oltre il vetro l’infermiere che non conosco mi fa segno d’indicare la persona per cui sono lì. Lo faccio e indico il giovane alla sua destra. L’uomo si avvicina a mio fratello e lo scuote, lo chiama per nome, gli dice qualcosa all’orecchio. Un brivido improvviso mi solca la schiena. Vorrei fargli segno di smettere, dirgli che non è importante, che lo lasci riposare. Mi sembra una violenza inutile distrarlo dalla lotta che sta ingaggiando contro il nemico che si era impossessato del suo corpo, e che potrebbe essere all’angolo ansimante e pronto a gettare la spugna della sconfitta.
“Quando lavoro, giro tra i letti senza mai fermarmi. Sei ore senza sosta, sei ore di sofferente speranza che il medico di turno mi chiami e mi dica: - Ok, questo lo trasferiamo in reparto -. Quando vado via è non accade, sono sicuro che il giorno dopo mi accorgerò che qualcuno non ce l’ha fatta. E allora ringrazio il cielo che non c’ero. Dopo cinque anni, passati in questo inferno in terra, qualcuno pensa che ci ho fatto il callo, ma non è così. Non sarà mai così. Ho chiesto di essere trasferito in un altro reparto, ma ancora non mi hanno risposto. Qualcuno mi ha suggerito di mettermi in malattia con diagnosi depressiva. Se continuo a non ricevere risposta penso che lo farò, in qualche modo devo pur difendermi dall’ammalarmi davvero”.
Oltre il vetro vedo due occhi che si aprono, si voltano, mi guardano, forse mi riconoscono, chissà. La mano di mio fratello si alza, sembra voglia salutarmi, poi ricade sul letto e gli occhi tornano a chiudersi. L’infermiere si allontana senza neppure guardarmi. Per lui è routine, a me’ ha fatto gelare il sangue. Forse ha ragione la sua gemella, quell’immagine del volto di mio fratello che mi guarda e alza la mano mi resterà fissa per sempre negli occhi, e non mi lascerà più. Ogni volta che penserò a lui, quello sguardo, simile a quello di mio padre, morto da appena sei mesi, ritornerà per ricordarmi che di fronte alla morte, possiamo solo guardare e niente più. Mia madre ha detto che se mio fratello muore sarà per volontà di mio padre, che conoscendo la sua fragilità, lo vuole con lui per non farlo soffrire. Dice che la notte che mio padre è morto, lui si sia alzato dal letto per controllare se avesse bisogno di qualcosa. Dice che gli ha asciugato il sudore, che si sono guardati, forse si sono anche detti qualcosa, poi è tornato da lei per dirle che era morto.
Guardo oltre il vetro e non riesco a piangere. Lo farò dopo, quando una telefonata nella notte mi comunicherà che mio fratello è morto.

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