Si osservò allo specchio e non si riconobbe. Le rughe che gli scavavano la fronte e il viso erano certamente le sue, ma non rammentava quando avessero cominciato a prendere forma. Sembravano comparse all’improvviso, senza quel progressivo disfacimento epidermico, tipico dell’età che avanza.
Gli occhi guardavano da una stretta fessura. La bocca era una linea inespressiva con gli angoli delle guance flaccidi. Disordinate sopracciglia ingrigite separavano il viso dalla testa quasi calva. Il naso sembrava un’appendice grossa e bitorzoluta. I denti erano sottili e ingialliti.
Si osservava cercando di cavare dalla grigia massa celebrale i tratti di un viso perso nel tempo. Pensò che se non si ha memoria, forse non si è vissuto.
Chiuse gli occhi e si concentrò: se era lì, non c’era dubbio che aveva vissuto, ma esserci non significava averlo fatto. Per chi era vissuto, o per cosa era esistito, era il dilemma scespiriano che lo accompagnava in quel sogno.
Riaprì gli occhi, si rimirò di nuovo nello specchio e ripeté nella testa la domanda: per chi o per cosa? Si concentrò a lungo, sperando che un’espressione del viso, gli riconsegnasse la risposta che aspettava. Passarono molti minuti senza ricavarne nulla.
Aprì la fontana e nelle mani giunte a coppa, raccolse l’acqua che scorreva rumorosa dal rubinetto, bagnandosi con energia il viso e la testa. La sensazione di freschezza sembrò dissolvere la foschia che gli invadeva i pensieri e rivide nello specchio le fattezze del volto, che temeva avere definitivamente smarrito.
Mentre si fissava compiaciuto, cominciarono ad affastellarsi nello specchio le immagini delle donne e degli uomini che avevano popolato la sua vita. Immagini che ruotavano turbinosamente davanti agli occhi; facce di persone morte da tempo.
Era l’ultima foglia vivente dell’ultimo ramo di una rigogliosa quercia; era l’ultimo di tutti e di niente.
Se lo specchio fosse stato quello della matrigna di Biancaneve, lo avrebbe interrogato per sapere se era lui il più triste del creato. Suppose gli avrebbe risposto di no: perché c’era sempre qualcuno più afflitto di chi ha la forza di chiederselo.
D’altronde non aveva granché di cui amareggiarsi. Quando era appena un neonato, gli morì il padre e la mamma lo rincuorò giurandogli che non lo avrebbe mai lasciato solo. Quando diventò bambino, gli morì anche la madre e la sorella gli promise che non lo avrebbe mai lasciato solo. Quand’era ragazzo gli morì anche lei e il fratello lo rassicurò che non lo avrebbe mai lasciato solo. Quando era ormai adulto, anche il fratello morì e una zia s’impegnò a non lasciarlo mai solo. Presto anche lei lo lasciò, e rimase definitivamente solo.
Ognuna di quelle persone gli aveva donato l’esistenza. Per tutti, la sua presenza era stata la ragione della loro utilità di vivere.
Quando si risvegliò, lo fece senza emozioni, girò la testa verso Marianna, che era ancora addormentata, e posò lo sguardo sullo splendido viso della ragazza per contemplarne i delicati tratti. Guardò l’orario sulla sveglia, si alzò dal letto e si avviò in cucina per preparare il caffè. Mentre il fuoco scaldava la Moka, si diresse verso il bagno di servizio per lavarsi i denti. Nello specchio notò accennata una piccola ruga perioculare sull’occhio destro, segno evidente della prossima formazione delle “zampe di gallina”. Sentì il fischio del salva spruzzi che indicava la fine della fuoriuscita del caffè e corse a spegnere la fiamma. L’aroma che salì dalle narici lo inebriò, facendogli dimenticare ogni cruccio. Versò il caffè in due tazzine e si diresse verso la stanza da letto sorreggendo un vassoio su cui aveva sistemato un piattino con alcuni biscotti. Non aveva fretta e lo appoggiò sul comodino di fianco alla ragazza, le diede un bacio sulle labbra e le augurò il buongiorno. Lei voltò la testa, sorrise e stirando la muscolatura allungò verso il cielo le braccia, congiunse a inserto le flessuose dita delle mani facendole scrocchiare; strizzò gli occhi e, sollevandosi si sedette con la schiena contro la testiera. Lui le porse la tazzina fumante e sistemò il piattino con i biscotti sul letto. Lei accostò timidamente le labbra al bordo caldo, ne bevve un sorso e allungò la mano ai biscotti; ne prese uno e lo morse. Le piaceva mischiare il sapore del caffè appena fatto alla pasta frolla.
Lui la contemplò ripetere l’operazione fino alla fine del caffè, poi avvicinò le labbra alle sue e insinuando la lingua nella bocca si nutrì dei residui di quel dolce impasto.
Ripensò al sogno e si disse che, un giorno o l’altro, avrebbe dovuto raccontarlo anche a lei. Forse l’avrebbe aiutata a comprenderlo e, finalmente, liberarsene.
Quel sogno lo rincorreva ogni maledetta notte, sempre uguale, sempre lo stesso. Non ricordava quando era cominciato, ma non era un incubo, perché non gli incuteva paura. D’altronde la paura aveva dimenticato da tempo cosa fosse. Era stata lei a insegnargli come superarla, come nasconderla, come evitarla.
Da quando l’aveva conosciuta la sua vita, era cambiata. In poco tempo aveva seppellito anni di esitazioni. Se era diventato più sicuro di sé; lo doveva a lei.
Anche lei gli aveva giurato che non lo avrebbe mai lasciato e lui, come aveva fatto con tutti gli altri, le affidò la sua vita. Allora lei la prese e la trasformò.
L’aveva conosciuta in un negozio vintage, mentre era all’affannosa ricerca di un raro disco di vinile di un gruppo rock in auge nella Russia dell’era Gorbaciov. Si erano letteralmente scontrati tra gli scaffali, precipitando entrambi a terra. Lei era finita sotto di lui e lo aveva dapprima guardato stupita, perché lui teneva ancora stretti al petto i dischi per paura che si rompessero, poi prese a ridere in maniera quasi irrefrenabile. Quando si risollevò, lo invitò a prendere un aperitivo e gli raccontò che qualche giorno prima una cartomante gli aveva predetto che la sua vita sarebbe cambiata il giorno che un uomo l’avesse travolta con la sua passione. Lei nel ripensare alla profezia si sarebbe aspettata ben altro tipo di passione, ma si sa’, disse civettuola, il destino va anche interpretato. Da allora più passavano i giorni, più si accorgevano di essere fatti l’uno per l’altra.
Una mattina le disse che c’era una sola cosa che ancora non sapeva di lei e credeva fosse giusto rivelargliela. Lui la guardò perplesso e dentro di sé pensò che ognuno ha dei segreti, che non sempre vale la pena di raccontare. Quello che per qualcuno è rilevante, notevole, fondamentale, esiziale, ad altri potrebbero apparire futilità senza senso e costrutto. Annuì senza convinzione e attese la confessione.
Lei gli raccontò che aveva smesso di lavorare come indossatrice, quando un suo amico le propose di fare la “spallona”. Lui la guardò aggrottando la fronte, e lei continuò assicurandogli che era un lavoro molto ben retribuito, che le permetteva di vivere una vita discretamente agiata. Gli spalloni, disse, fanno parte di un’organizzazione molto efficiente e ramificata in tutta Europa, che ha poche regole e un'unica certezza: chi sbaglia muore. Per lei che amava molto viaggiare la proposta le apparve subito allettante, così decise di provare e da allora non aveva più smesso. Faceva tre o quattro viaggi l’anno, dapprima aveva cominciato con piccole cifre, quasi fosse in prova, poi, via via sempre più alte. Era arrivata a spostare fino a mezzo milione di euro con un guadagno netto del dieci percento. Ci pensi, disse raggiante, cinquantamila euro solo per andare in vacanza. Lui fece un rapido calcolo e le rispose che seppure fossero state banconote da cinquecento euro si trattava pur sempre di mille pezzi, un volume piuttosto ingombrante. Lei rise e gli rispose che non si trattava di euro, bensì di franchi svizzeri che valendo quasi il doppio dell’euro occupavano, sottovuoto, meno della metà di spazio. Bastavano un paio di confezioni di pan carré da ventiquattro fette per occultare mezzo milione.
La discussione finì li, fino al giorno in cui, per sfuggire al freddo che quell’inverno si annunciava il più duro degli ultimi vent’anni, gli propose di andare in vacanza in un posto caldo. Ne avrebbero approfittato per fare un trasferimento per l’organizzazione, così la vacanza sarebbe stata bella è pagata. Lui acconsentì controvoglia e per non farla dispiacere, e lei predispose tutto. Sarebbero partiti entro pochi giorni con un volo charter per le Maldive e sarebbero rimasti a crogiolarsi al sole per i successivi due mesi. Aveva acquistato il volo e prenotato un bungalow in un villaggio cinque stelle su un piccolo atollo. Doveva solo passare dal suo “bancomat personale” per ritirare il denaro necessario.
Stiparono le valige nel portabagagli dell’auto e imboccarono l’autostrada in direzione Malpensa. Durante il tragitto lei prese il cellulare, ne estrarre la sim e la sostituì. Compose un numero di telefono e attese. Senza proferire parola scrisse su un foglietto alcuni numeri e chiuse la conversazione. Estrasse nuovamente la sim dal cellulare e la sostituì con un’altra nuova di zecca. Compose sulla tastiera i numeri che aveva annotato e una voce femminile molto graziosa, le chiese: quando e dove. Lei, impostando la voce rispose: Milano per Malè, Maldive. Oggi ore diciassette. L’interlocutrice confermò le sue parole indicandole un indirizzo e un codice, e chiuse la chiamata. Marianna annotò indirizzo e codice, estrasse la sim dal cellulare, calò il vetro della portiera e con un rapido gesto, la lanciò all’esterno verso la campagna. Si allungò verso il viso del compagno, gli diede un bacio sul collo, reclinò il sedile e, con aria soddisfatta, distese le perfette gambe inguainate in un leggings, sotto il vano portaoggetti.
Lui la guardò mentre socchiudeva gli occhi dietro gli occhiali da sole e pensò, estasiato, che non avrebbe mai più potuto fare a meno di lei.
Quando arrivarono a destinazione, lei scese e velocemente entrò in un palazzo, con tanto di portiere in livrea. Ne ridiscese dopo circa quindici minuti, scura in viso. Entrò nell’auto e imprecò sul fatto che la vacanza sarebbe stata più breve del previsto. Lui le chiese di spiegarsi meglio e lei, aprendo la borsa, indicò sei pacchetti di sigarette. In ogni pacchetto c’erano quaranta banconote da mille franchi, in totale duecentoventimila euro. A lei avevano dato solo il sette per cento, quindicimila euro. Gli avevano detto che non avevano molte richieste per la destinazione che aveva scelto e, che quella era la migliore che potessero offrirle.
Lui per solidarietà assunse un’aria imbronciata, ma non gli importava più di tanto. Le disse che, pur di farla contenta, il denaro necessario per restare due mesi, l’avrebbe messo lui; a lui non mancava. Grazie alle rendite degli appartamenti che aveva ereditato, aveva molti risparmi da parte che gli permettevano di vivere senza dover lavorare. Anche lui aveva molte cose della sua vita che non le aveva ancora rivelato e l’occasione gli sembrava quella giusta per cominciare.
Lei sembrava non averlo sentito e continuava a imprecare verso l’organizzazione che, secondo lei, l’aveva declassata. Lui fece un timido sbuffo intollerante e le chiese se poteva partire. Lei non rispose, e lui ripartì per l’aeroporto.
Avevano ancora qualche ora prima del check-in, e decisero di mangiare in un ristorante che lei conosceva sulla statale; all’altezza di Cardano al Campo. La rabbia sembrava esserle passata, e lui ne fu contento.
Quel giorno doveva essere uguale a tanti altri, invece, divenne unico e irripetibile.
Quando uscirono dal ristorante, trovarono due uomini in uniforme della guardia di finanza, fermi vicino all’auto. Lei si bloccò e si guardò furtivamente intorno, poi lo strattonò dicendogli sottovoce di tornare dentro. Lui indietreggiò, guardando i due uomini che fecero qualche passo nella loro direzione. Si voltò e sentì un colpo. La mano di Marianna che teneva stretta, s’irrigidì. Udì un secondo colpo e il braccio della ragazza si scosse. Vide il suo corpo cadere riverso a terra, accanto ai suoi piedi. Sul giaccone due macchie rosse si espandevano rapidamente all’altezza di una spalla e della schiena. I due uomini si avvicinarono rapidamente e mentre uno raccolse la sua borsa, l’altro gli intimava di inginocchiarsi.
Non lo fece. Era certo che quegli uomini non fossero dei finanzieri e ritenne inutile sperare che lo lasciassero vivere, dopo che avevano ucciso a sangue freddo l’ultima àncora della sua vita.
Chiuse gli occhi e, seppure sveglio, nella testa ricomparve il suo sogno ricorrente. Il viso del vecchio e tutti quei volti che lo guardavano, ora lo ringraziavano sorridenti e felici. Per tutti loro era stato un dono, scelto o arrivato, non era in grado di affermarlo. Comunque, e di questo era sicuro, di quel dono avevano beneficiato principalmente loro. Che ci fosse o no un’altra vita, lui era stato il viatico perché essi, morendo, lo facessero felici di andare a riscuotere la giusta ricompensa. Loro lassù e lui quaggiù, piuttosto incerto di raggiungerli nello stesso luogo.
Ecco! Pensò: era vissuto per far felici altri, che lo avevano lasciato senza mai domandargli se lui lo fosse davvero. Ora gli sembrava così naturale quella risposta che non si preoccupò di porsi la domanda successiva: ora che erano tutti morti, quale era l’utilità di essere rimasto in vita? Non lo aveva mai fatto per paura, e perché della domanda intuiva la risposta: perché ora devi solo morire tu!
Udì un altro colpo, l’ultimo.
La rapina
- Scritto da Vincenzo Di Giacomo
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