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Torna per votare. Vota per tornare.
Seduto sulla poltrona del salotto, Fortunato rilesse il telegramma che gli aveva inviato il suo amico d’infanzia Giovanni. Nella frase composta da due incitamenti, ne intravedeva un terzo, il più significativo per lui: Torna.
Erano passati quasi dieci anni dalla notte in cui la sua famiglia, in fretta e furia, aveva deciso di partire alla ricerca di un futuro migliore.
L’avvenimento che convinse il padre a fuggire dal loro paesino nelle Murge, fu la sanguinosa rappresaglia che l’esercito del Governo post-bellico, attuò per sedare la violenta rivolta dei braccianti contro i proprietari terrieri, ostili all’applicazione della legge sull’impiego obbligatorio della manodopera nelle campagne.
Raccolte le poche cose che possedevano, raggiunsero, non senza difficoltà, la Germania. In quella nazione tanto lontana, in quella cittadina sempre piovosa, fredda e senza mare; tanto diversa dal piccolo borgo lussureggiante di verde, inondato all’imbrunire dall’odore del mare, lentamente Fortunato e la sua famiglia ritrovarono la serenità che fino a quel momento gli era stata negata.
In tutti quegli anni lui e Giovanni erano rimasti sempre in contatto, scrivendosi frequentemente. L’amico gli chiedeva di raccontargli com’era la vita in Germania, se avesse visto il famoso muro e cosa ne pensasse la gente di lì. Dal canto suo Giovanni lo aggiornava sull’impegno di sindacalista che aveva assunto nella CGIL, lamentandosi che a causa della profonda ignoranza che ancora pervadeva la gente, battersi per far valere i loro diritti, comportava molte amarezze e tanti sacrifici.
Invece, Fortunato si era completamente integrato nel suo nuovo paese; dove aveva conseguito un diploma da meccanico e lavorava come operaio nella Volkswagen. Se non fosse stata per l’intensa corrispondenza con il suo amico, avrebbe già del tutto dimenticato quei luoghi e quella gente; come avevano fatto i suoi genitori.
Anche le due sorelle, più piccole di lui, erano diventate in tutto e per tutto delle tedesche. A nessuno di loro mancava più l’Italia.
Quell’anno Fortunato aveva raggiunto la maggiore età e Giovanni, nella sua ultima lettera, lo aveva esortato a tornare, per aiutare con il voto, il suo paese.
Prima di decidere se partire o no, Fortunato gli scrisse domandandogli se il suo interesse a che tornasse era solo perché votasse o ci fosse, anche, qualche altra inespressa ragione. Con quella breve e secca domanda, si riferiva al loro rapporto da adolescenti quando, scorribandando nelle campagne, fino verso il mare, avevano cominciato a scoprire i propri corpi e la loro sessualità. L’amico non aveva dato risposta alla lettera, ma gli aveva inviato quel telegramma, e lui si era arrovellato per giorni il cervello, cercando di capire se la risposta alla sua domanda, fosse implicitamente indicata.
Decise di parlare in famiglia dell’esortazione del suo amico, sperando che anche i suoi genitori decidessero di profittare dell’occasione per tornare nel loro paese natio. Le sorelle si dissero entusiaste e sembravano aver aperto una breccia nella madre, quando il padre, con fare risoluto si oppose. Disse che non sarebbe mai più tornato in Italia, tantomeno nel suo paese; neppure da morto. Aggiunse che il figlio avendo raggiunto la maggiore età, poteva fare ciò che voleva. Si alzò e si diresse verso il salotto, dove accese la TV; sancendo così, che la discussione era terminata.
Fortunato guardò la madre e le sorelle, e pensò che in fin dei conti la natura di pater familias, del suo vecchio genitore, era rimasta identica a quando vivevano in Italia.
D’altronde, la vera ragione per cui aveva fatto la proposta, era per la paura che Giovanni non avesse inteso le sue parole e, da solo, si sarebbe trovato in un forte imbarazzo. Se ci fossero stati anche loro, l’eventuale delusione sarebbe stata più sopportabile.
Mentre le sorelle sparecchiavano la tavola, la madre lo esortò ad andare. Lui rispose evasivo che forse non era il caso; avrebbe dovuto chiedere delle ferie e il viaggio in treno era lungo e faticoso. Tanto, aggiunse con fare disinvolto, un voto in più, uno in meno non avrebbe fatto la differenza. Invece, la madre continuò ad insistere suggerendogli di prendere l’aereo; gli avrebbe dato lei il denaro per pagarsi il biglietto. Lui le sorrise e guardandola nei suoi bellissimi occhi neri, le espresse non solo l’amore che provava per lei, ma un tacito ringraziamento all’incoraggiamento ad essere sempre un passo avanti i tempi. Si alzò e dandogli un bacio in fronte, le rispose che ci avrebbe pensato e si diresse anche lui verso il salotto.
Sdraiato sul letto con le braccia conserte dietro la testa, rimuginava se davvero la mancanza di Giovanni fosse dovuta ad un impulso affettivo o sentimentale. Finora non gli era mai capitato di ripensare all’amico sotto questo duplice aspetto, anche se non aveva mai rimosso dalla mente la prima volta che Giovanni gli propose di toccarsi vicendevolmente nelle parti carnali. Inizialmente rifiutò per pudore, poi la curiosità prese il sopravvento e accettò. Dopo quella volta ne avevano fatto il loro gioco segreto. Giovanni gli confessò che l’aveva imparato dal parroco, che ogni volta lo ricompensava con della cioccolata e delle caramelle.
La mattina seguente, sul comodino accanto alla tazzina con il caffè, trovò una busta. L’aprì e ne estrasse del denaro. Pensava lo avesse lasciato la madre, ma quando tornò dal lavoro, scoprì che era stato il padre. A quel punto pensò che partire, non avrebbe creata alcuna divergenza con lui, e uscì per andare ad acquistare il biglietto dell’aereo.
La sera prima della partenza, ringraziò il padre, tra gli sguardi stupiti delle sorelle, e ricevette dalla madre la raccomandazione di salutare tutte le persone che li conoscevano, assicurando a tutti che stavano bene e che un giorno, anche loro sarebbero tornati al paese per rincontrarli.
Arrivato all’aeroporto lo assalì una forte ansia. Era la prima volta che saliva su un aereo e nel vederli così piccoli, non riuscì ad immaginarsi cosa avrebbe potuto fare in caso di un incidente; anche se gli avevano detto che finora nessuno si era mai salvato da un simile evento. Rifletté che forse non valeva la pena di rischiare per una ragione così futile, come quella di votare per il governo di un paese che orami non lo interessava più. Poi l’idea di rivedere Giovanni gli fece nuovamente cambiare idea. Desiderava rivederlo per capire se davvero, quei giochi adolescenti avevano cambiato la sua natura di maschio, oppure si fosse trattato solo dell’inconsapevole bizzarria di due amici. Le ragazze tedesche che aveva conosciuto in quegli anni non gli erano indifferenti, ma quel dubbio si era fissato come un chiodo in testa e lo preoccupava. Partiva per capire e, di più, sperava di arrivare, chiuso in quella scatola di latta tra le nuvole, per oltre quattro ore. Una volta atterrato lo attendevano altrettante ore di treno e sperava che Fortunato avesse ricevuto, per tempo, il suo telegramma e lo attendesse in stazione.
Fece il check-in e mentre aspettava che annunciassero l’imbarco del suo volo, decise di gironzolare per l’aerostazione che non era molto grande, ma lo incuriosiva molto. Nei saloni centinaia di persone si spostavano, con apparente disordine da una parte all’altra, con gli occhi fissi sui tabelloni, simili a quelli delle stazioni ferroviarie, dove erano indicati gli arrivi e le partenze. Sembravano tutti impazienti di salire sull’aereo che li avrebbe portati a destinazione, al contrario suo, ancora impaurito al solo pensiero di un tale evento.
Si avvicinò all’edicola dei giornali e decise di comprare qualche rivista per distrarsi durante quella che a lui sembrava sarebbe stata una penitenza, piuttosto che un viaggio di piacere. Pensò di nuovo che era ancora in tempo per ripensarci, avrebbe detto ai suoi familiari e scritto al suo amico che, confuso dalle molteplici indicazioni dei voli e delle destinazioni, aveva sbagliato uscita e perso il volo. Non ci sarebbe stato nulla di male, succede di essere preso dal vortice della novità e di sbagliare.
Poi si guardò intorno, e nel vedere tutta quella gente che sembrava prepararsi a fare la cosa più naturale del mondo, si disse che non poteva ridursi a fare la parte del cretino.
La tensione gli sollecitò la vescica e decise di approfittarne per andare in bagno, non sapendo se, una volta salito in aereo, gli sarebbe stata possibile svolgere, senza problemi, una tale operazione. Quel pensiero gli fece venire la curiosità di sapere dove finissero gli scarti fisiologici dei passeggeri durante il volo; di certo non venivano liberati in cielo, come succedeva per le toilette dei treni che le scaricavano brutalmente all’esterno.
Raccolse le riviste e la piccola valigia e si avviò alla ricerca dei bagni. Finalmente notò un piccolo cartello con disegnate la figura di un uomo e di una donna, la scritta “Crews” e una freccia. Si avviò nella direzione indicata, attraversò la porta, che si apriva su un lungo corridoio e aveva un’altra porta in fondo. Attraversò il corridoio e la porta e si ritrovò su di un ballatoio dove c’erano due rampe di scale, una diretta verso il basso e l’altra verso l’alto. Rimase sconcertato sul da farsi, mentre la vescica cominciava a bruciargli. Con lo sguardo cercò un cartello analogo a quello che lo aveva portato lì e lo trovò. Seguì la nuova indicazione e risalì la rampa di scale raggiungendo una nuova porta che, stavolta, non si apriva. Imprecando si guardò intorno e, a un tratto, un uomo in divisa da pilota uscì dalla porta, lanciandogli uno strano sguardo. La vescica gli doleva notevolmente e l’istinto ad urinare sopravanzava forte su ogni altro pensiero. Si imbucò velocemente dentro la porta cercando altre indicazioni. Fece qualche passo in una enorme stanza piena di piccole cassettine, simili a quelle postali e su una porta vide la scritta “WC”. Entrò e aperta la patta dei pantaloni, lasciò andare la minzione ormai irrefrenabile. Si scrollò, soddisfatto, dalle residue gocce, richiuse la patta e con un profondo sospiro di sollievo si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani.
Quando uscì dal gabinetto e tentò di aprire la porta da cui era entrato, scavalcando come in un dribbling calcistico, l’uomo in divisa, si accorse che questa non si apriva come una normale porta, perché affianco alla serratura non c’era una maniglia, ma una serratura.
Piuttosto infastidito per quella situazione, prese a bussare sula porta, nella speranza che qualcuno lo sentisse e gli aprisse. Il tempo passava e cominciò a salirgli l’ansia. Non sapeva dove si trovasse precisamente, anche se quello che cercava l’aveva trovato e quindi non poteva aver sbagliato direzione. Guardò l’orologio e vide che l’ora della partenza del suo aereo era imminente. Riprese a battere con tutte e due le mani sulla porta, ma non succedeva niente.
Dopo un tempo che gli sembrò interminabile, la porta si aprì ed entrarono alcune donne in divisa. Fece nuovamente un veloce dribbling e uscì di corsa sul pianerottolo, ridiscese di nuovo le scale e nella foga, non si fermò continuandole a scendere. Si ritrovò alla fine delle scale davanti ad un corridoio che credeva essere quello attraversato all’inizio. Lo percorse tutto e si fermò affannato di fronte ad un uomo che con un gesto della mano gli intimava l’alt. Velocemente estrasse dalla tasca il biglietto aereo e glielo mostrò, lui lo guardò e gli fece segno di risalire le scale e, al primo piano, di prendere la porta alla sua destra. Di filato corse su per le scale, prese la prima porta a destra, attraversò il corridoio, spalancò la porta e, quasi investendo delle persone, corse verso il varco nove.
Non c’era nessuno, riprese fiato e si disse che, nonostante tutto, l’imbarco non era ancora iniziato. Volente o nolente, quel volo l’avrebbe preso, alla faccia di tutte le angosce che lo avevano attanagliato finora.
Passarono alcuni minuti e al varco continuava ad esserci solo lui. Ebbe un lampo e pensò avesse sbagliato uscita, si voltò per cercare un tabellone e quando vide della gente assiepata con lo sguardo rivolto verso l’alto, immaginò si trovasse lì e a passo svelto li raggiunse. Guardò il tabellone e, assai stupito, accanto all’indicazione del suo volo lesse la scritta: decollato. Non ricordava di aver sentito nessun annuncio che chiamasse i passeggeri del suo volo all’imbarco, ma evidentemente, il caracollarsi alla ricerca del gabinetto lo aveva completamente isolato da ogni attenzione all’esterno.
Strinse gli occhi e la bocca e si insultò silenziosamente. Si ricompose e si diresse verso il banco delle informazioni, dove una signorina, cortese e sorridente, lo squadrò da dietro delle lenti spesse come un bicchiere e gli annunciò: no show. Lui la guardò stranito e lei capì…, che non aveva capito. Signore, le disse con un sorriso che a lui parve quasi uno sberleffo, il suo volo è partito da oltre dieci minuti, e non essendosi presentato al momento dell’imbarco, e come se lei avesse rinunciato, pertanto, questo biglietto lo può anche buttare.
Strinse nuovamente la bocca e gli occhi, maledicendo in silenzio l’addetta, il suo amico Giovanni e sé stesso. A quel punto non poteva far altro che tornare a casa, la cosa che lo rammaricava, più di tutto quell’inutile sbattimento, sarebbe stata la reazione dei suoi: la madre avrebbe sentenziato che non era destino prendesse l’aereo, il padre l’avrebbe guardato commiserandolo, e le sorelle lo avrebbero deriso. D’altronde, non avrebbe potuto avanzare nessuna ragionevole scusante.
Non appena varcò la porta di casa, udì distintamente dei pianti venire dal salotto. Si precipitò per capire cosa stesse succedendo e si trovò otto occhi fissi su di lui, che lo guardavano impauriti, quasi fosse un fantasma. Non fece in tempo a dire neanche una parola, che vide la madre svenire per terra, le sorelle ritrarsi urlando e il padre che gli correva contro.
Quando la situazione tornò alla normalità, lo informarono che dalla radio avevano sentito che l’aereo che avrebbe dovuto prendere era stato dirottato, una ventina di minuti dopo il decollo. Dalle notizie avevano appreso che i terroristi avevano diretto l’aereo in Ucraina, oltre la cortina di ferro, e minacciavano di farlo precipitare nel caso di qualche intervento esterno.
Diversamente da come aveva immaginato in aeroporto, non vi furono commenti negativi sulla vicenda, trattandosi di una vera propria fortuna, quella che gli era capitata.
Alcune settimane dopo ricevette una lettera da Giovanni, in cui lo rimproverava di non aver tenuto fede al suo impegno. Gli comunicava che alle elezioni politiche la Democrazia Cristiana aveva nuovamente vinto, ma con un risultato assai inferiore alle precedenti consultazioni. Che in paese la lista della sinistra unita aveva sbaragliato tutti, imponendosi con una maggioranza di oltre il sessanta percento, e che lui era stato eletto consigliere comunale. Si rammaricava che alla sua elezione, non avesse contribuito il suo migliore amico; pur giustificando che le loro strade si erano divise da tempo. La lettera concludeva con un ulteriore notizia che lo lasciò di stucco. Giovanni gli comunicò che entro l’autunno si sarebbe sposato con Teresa, la figlia del medico condotto, che era in dolce attesa. Aggiunse che lo avrebbe senz’altro invitato, sicuro che questa volta avrebbe mantenuto la parola.
Fortunato lasciò passare alcuni giorni prima di rispondergli. Se lo avesse fatto subito dopo, era certo che avrebbe dovuto stracciare la lettera, tanta era la rabbia che gli era montata nel leggere le parole del suo amico. Gli avrebbe risposto che neppure s’immaginava a cosa sarebbe andato incontro se avesse preso quell’aereo. Che aveva dato retta a un sentimento che credeva condiviso e, invece, scopriva, con la notizia del suo imminente, fallace matrimonio, essere stato per lui solo un passatempo, iniziato in canonica e continuato nei campi.
Invece, soppesò ogni parola, deciso a chiudere con quella lettera ogni rapporto. Gli raccontò del dirottamento e gli fece gli auguri per la sua nomina e per il matrimonio. Rinunciò ad anticipargli che non avrebbe presenziato allo sposalizio.
Un anno dopo, Fortunato era nuovamente in aeroporto, stavolta diretto in America. Lo fece insieme ad una ragazza tedesca che aveva conosciuto, grazie alla popolarità di uno stravagante giornalista che lo aveva definito “il giovane Fortunato di nome e di fatto”. Dopo quel viaggio l’anno seguente ne fecero un altro, e un altro ancora; poi un giorno la sua famiglia ricevette una lettera in cui Fortunato comunicava che non sarebbe tornato in Germania; non prima di portar loro a conoscere il nipotino che presto sarebbe nato.

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