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Ho conosciuto Elena quando frequentavo l’università.
Sedevamo a meno di due metri nell’aula dove si teneva un corso. Mi colpì subito per i lunghi capelli rosso fuoco e l’abbigliamento sbarazzino.
Terminata la lezione, che seguii poco per come ero intento a studiarla e ammirarla, l’avvicinai, mi presentai, e con la scusa più banale del mondo le dissi che avevo perso la penna e non avevo potuto prendere appunti, e se fosse stata così gentile da farmi una copia dei suoi.
Dal sorriso sornione che mi concesse, pensai avesse capito che era una frottola, in seguito mi confessò che era stato il tappo della Bic che fuoriusciva dal taschino della camicia a farle intuire dove volevo andare a parare. Risposi cordialmente al sorriso e le domandai se fosse d’accordo, rispose di sì e mi chiese l’email. Le dissi che il PC era guasto e le diedi il numero di cellulare per farmele inviare via WhatsApp. Fece nuovamente un sorriso, questa volta genuino e complice, e mi segnò il suo numero. È fatta, pensai ringraziandola e mi allontani senza voltarmi, così, per darmi un tono.
La mattina dopo il cellulare squillò e ancora assonnato risposi alla fastidiosa interruzione dei miei sogni. Era lei!
Scusandosi, mi disse che non era troppo pratica con le nuove tecnologie e aveva stampato una copia degli appunti che pensava di consegnarmi di persona. Saltai dal letto e falsamente risposi che mi dispiaceva averle recato tanto fastidio, aggiunsi, senza attendere la risposta, che avrei saputo farmi perdonare. Fissammo ora e luogo dell’incontro e mi fiondai in bagno.
Ero sicuro di aver fatto colpo e canticchiando in bagno, cominciai ad immaginarmi tutta la scena che avrei interpretato per dare seguito al corteggiamento.
L’appuntamento era a un bar vicino all’università. Passai da un fioraio e comprai dodici rose rosse a gambo lungo, il più lungo che c’era. Era la prima volta che mi presentavo con dei fiori ad un appuntamento, ma con Elena non volevo indecisioni, la ragazza mi piaceva tanto.
Da lontano riconobbi seduta a un tavolino la magnifica chioma rossa, nascosi le rose dietro le spalle, mi avvicinai senza parlare, feci un piccolo inchino e gliele porsi. Lei arrossì visibilmente e si alzo allungando una mano per prenderle. Sorrisi soddisfatto, quello delle rose era stato un colpo di genio e aggiunsi: «come il fuoco dei tuoi capelli». Lei si fece seria, si sedette e guardandole disse: «ah, sono rosse». Aggrottai la fronte e quasi smarrito chiesi: «come, scusa?» Con un sospiro rispose che era protanope. Alla mia espressione stupita e interrogativa mi spiegò, semplificando, che era daltonica: non distingueva il colore rosso. Mi sedetti velocemente e le chiesi scusa, se avessi saputo non mi sarei permesso. Lo dissi con un’espressione del viso così triste e rammaricata che lei mi prese la mano e per rincuorami, allungandosi oltre il tavolino, mi diede un bacio sulla guancia. Ero certo di essere arrossito sicuro che lei, per fortuna, non avesse potuto notarlo. Invece, sorridendo inarco le sopracciglia e sentenziò sicura: «sei arrossito!» Spalancai gli occhi e lei precisò che non distingueva i colori ma le tonalità dei bianchi e dei neri, sì, e aveva capito che ero arrossito dall’improvviso scurirsi del colore delle guance. Feci una smorfia indecifrabile e confermai con un cenno della testa.
Passammo quasi due ore insieme, a parlare di noi e della nostra vita molto piacevolmente. Disse che le ero simpatico e io, senza mezze misure, le dissi che lei, invece, mi piaceva molto. Arrossì di nuovo invitandomi a non correre troppo in giudizi e intenzioni. Feci un’altra smorfia e le promisi di essere espansivo nella giusta misura.
Tornai a casa e mentre camminavo ripensai alla gaffe delle rose e al fatto che per lei quel fiore che tanto amavo, non conteneva tutte le emozioni che invece sprigionava nei miei sensi: il rosso fuoco del bocciolo che incendia l’anima ed emoziona, la delicatezza dei petali simile alla morbida e delicata pelle di un neonato. Per lei era come un carciofo grigio fumo. Ripensavo a quell’incredibile dicotomia che rappresentava per lei la sua bellezza: una chioma rossa fluente, una pelle candida come la neve, delle labbra naturalmente vermiglie, gli occhi intensamente verdi. Era bella, molto più bella di tante altre e pur sapendolo, non poteva goderne il confronto.
Nei giorni seguenti continuammo a vederci, ci piaceva farlo e stavamo bene insieme. Continuavamo a parlare di noi, dell’università, del mondo intero. Non sembravamo stancarci perché ogni giorno scoprivamo di avere moltissimi interessi in comune. Finché una mattina aprii gli occhi e pensai: le mancano i colori, anzi le mancano le emozioni che i colori esprimono, devo fare qualcosa per farle condividere questa gioia. Così le proposi di fare delle lunghe passeggiate in cui avrei tentato di tradurre in emozioni quello che per lei era solo bianco e nero. Mi guardò furtivamente e mi confessò di aver già fatto una cosa simile, da bambina, con la nonna e le era pure piaciuto, poi la nonna, già molto anziana si ammalò di cataratte agli occhi e il gioco finì. Le presi le mani e dissi che se avesse voluto avremmo potuto riprenderlo insieme, con il suo aiuto avrei provato a farle scoprire il sapore, l’odore, la consistenza dei colori.
Sono passati tre anni da quel giorno, Elena si è trasferita in un altro continente per un master. Siamo sempre in contatto con la promessa che presto ci saremmo ritrovati, qui o in un’altra città del pianeta.
Il nostro giuoco non è mai terminato, spesso ci vediamo in chat mentre giro per la città e mostrandole ciò che mi circonda le rappresento le emozioni dei colori che lei descrive alla sua mente.

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